SENTENZA N. 275
ANNO 2009
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30 del decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra
uomo e donna), promosso dal Tribunale di Milano nel procedimento
vertente tra Caterina Giovinazzo e la Manutencoop Facility Management
S.p.A., con ordinanza del 1° dicembre 2008, iscritta al n. 91 del
registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2009.
Visto
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009 il Giudice relatore Luigi
Mazzella.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 1° dicembre 2008, il Tribunale di
Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 30
del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre
il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il
lavoratore di sesso maschile – l'onere di dare tempestiva
comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da
effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del
diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilità ad nutum
di quest'ultimo dal rapporto di lavoro.
Riferisce il rimettente che, con ricorso
ex art. 414 c.p.c., la signora Caterina Giovinazzo aveva convenuto
in giudizio l'impresa Manutencoop Facility Management S.p.A., per
impugnare il licenziamento a lei intimato in data 9 maggio 2007. La
ricorrente aveva esposto di essere stata licenziata in data 9 maggio
del 2007 per avere raggiunto l'età pensionabile, senza anticipatamente
manifestare la propria intenzione di volere proseguire nel rapporto di
lavoro. La difesa di parte ricorrente, insistendo per l'accertamento
della illegittimità del recesso, aveva sollevato eccezione di
legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4, 27 e 35
della Carta costituzionale, della disposizione di cui all'art. 30 del
d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198,
che, a suo dire, aveva reintrodotto lo stesso onere di comunicazione
già dichiarato incostituzionale con ripetuti pronunciamenti della
Corte costituzionale (sentenze n. 138 del 1986, n. 498 del 1988 e n.
256 del 2002).
Il rimettente ricorda che la Corte costituzionale aveva dichiarato
dapprima l'illegittimità costituzionale dell'art. 11 della legge n.
604 del 1966 e di altre disposizioni connesse (sentenza n. 137 del
1986), «nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione
di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per
questo motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d'età,
anziché al compimento del sessantesimo anno come per l'uomo»,
giudicando ormai venute meno quelle ragioni e condizioni che in
precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della
donna rispetto all'uomo, e, di riflesso, illegittima qualsiasi
disposizione che differenziasse l'applicazione dei diritti di tutela
del posto di lavoro alla condizione di essere lavoratore uomo, ovvero
lavoratrice donna.
In seguito, anche l'onere, introdotto
dall'art. 4 della legge 9 dicembre 1977,
n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro),
di comunicare anticipatamente al datore di lavoro la propria
intenzione di proseguire a lavorare fino agli stessi limiti di età
fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato
incostituzionale.
Detti principi, prosegue il rimettente, venivano poi ulteriormente
ribaditi dalla pronunzia n. 256 del 2002, laddove si afferma, in
sintesi, che «i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37,
primo comma, non consentono di regolare l'età lavorativa della donna
in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per
quanto concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle
condizioni per raggiungerlo».
Sennonché, riferisce il Tribunale di Milano, il legislatore,
tramite l'art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28
novembre 2005, n. 246), nel ribadire il pieno diritto delle donne
lavoratrici di continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età
fissati per gli uomini, di fatto ha reintrodotto le disposizioni in
materia di preventiva dichiarazione di opzione al datore di lavoro,
nel senso di subordinare il diritto della donna lavoratrice alla
stabilità del rapporto di lavoro fino al sessantacinquesimo anno di
età, ad una esplicita e preventiva manifestazione di volontà.
Tanto premesso, il Tribunale rimettente dubita che la pure
constatata esistenza di una normativa di carattere previdenziale più
favorevole per le donne, possa essere tale da giustificare una tutela
differenziata in materia di licenziamenti.
Infatti, le argomentazioni che avevano già in passato indotto la
Corte costituzionale a dichiarare illegittima e priva di una logica
giustificatrice l'introduzione di un obbligo per le lavoratrici donne,
quale condizione per rendere applicabile la normativa vincolistica sui
licenziamenti, non solo appaiono al rimettente di rinnovata attualità,
ma addirittura rafforzate proprio alla luce delle penetranti modifiche
che si sono venute a determinare nel mercato del lavoro e nella
struttura della società italiana (ed europea), che sempre più valuta
come radicalmente inattuale qualsiasi differenziazione di norme e/o di
trattamenti in funzione del sesso.
Nella fattispecie, quindi, siccome la richiesta opzione discrimina
la donna rispetto all'uomo per quanto riguarda l'età massima di durata
del rapporto di lavoro e, quindi, la diminuita tutela della
lavoratrice in tema di licenziamento, sussisterebbe la violazione
dell'art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole
giustificazione, e dell'art. 37 Cost., risultando leso il principio
della parità uomo-donna in materia di lavoro.
2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
ed ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Secondo la difesa erariale, la circostanza che la facoltà della
donna di restare in servizio sino all'età massima prevista per gli
uomini sia subordinata, dall'art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n.
198, all'onere di una preventiva comunicazione al datore di lavoro non
sarebbe discriminatoria rispetto all'uomo né sotto il profilo della
violazione dell'art. 3 Cost. né sotto il profilo della violazione
dell'art. 37 Cost., essendo mutato il quadro normativo di riferimento
rispetto alla sentenza n. 498 del 1988.
Essendo, infatti, facoltà della lavoratrice avvalersi o meno della
possibilità di prolungare il rapporto di lavoro fino al limite massimo
di 65 anni, subordinare la continuazione del rapporto ad una
tempestiva comunicazione al datore di lavoro, afferma l'Avvocatura, si
giustifica perfettamente con le esigenze organizzative di questo e la
necessità per lo stesso di conoscere per tempo le determinazioni del
proprio dipendente in proposito.
Parimenti infondato, per il Presidente del Consiglio, sarebbe
anche l'ulteriore parametro costituzionale invocato a sostegno della
denunciata incostituzionalità della norma e basato su una presunta
discriminazione delle donne lavoratrici in assenza di un analogo
obbligo per i lavoratori. Infatti, la previsione dell'obbligo della
comunicazione per le sole donne si giustificherebbe sempre con
l'originaria diversa disciplina in materia di età pensionabile.
Secondo il Presidente del Consiglio, poiché è riconosciuta solo
alle lavoratrici donne la possibilità prolungare la propria età
lavorativa fino a quella prevista per gli uomini, in un'ottica di
parificazione totale tra i due sessi, ma nella salvaguardia di vecchi
principi e diritti, e non prevedendosi un'analoga possibilità di
prolungamento del rapporto di lavoro per gli uomini, come tali tenuti
ad andare in pensione al raggiungimento dei 65 anni, l'obbligo della
comunicazione non potrebbe che essere imposto alla sole donne, non
essendo concepibile un obbligo di comunicazione per una facoltà non
riconosciuta.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Milano dubita, con riferimento agli articoli
3, 4, 35 e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell'articolo 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre
il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il
lavoratore di sesso maschile – l'onere di dare tempestiva
comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da
effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del
diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilità ad nutum
da parte di quest'ultimo dal rapporto di lavoro.
2. - Nella legislazione precedente, il principio di cui all'art.
11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti
individuali), che sanciva la radicale inapplicabilità della tutela
contro i licenziamenti illegittimi alle lavoratrici che fossero
rimaste in servizio oltre il raggiungimento della loro età
pensionabile (allora prevista in 55 anni), era stato temperato
successivamente dall'art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903
(Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), in
base al quale, alla maturazione di detta età pensionabile, le
lavoratrici ben potevano restare in servizio fino al raggiungimento
dell'età lavorativa massima prevista per gli uomini (all'epoca 60
anni), a condizione che comunicassero tale loro opzione al datore di
lavoro tre mesi prima del raggiungimento dell'età pensionabile.
Le
ora riportate disposizioni avevano formato oggetto di due successivi
interventi da parte di questa Corte. Con la sentenza n. 137 del 1986,
sul presupposto che l'avvento di
nuove tecnologie e metodi di produzione e di riforme intervenute nel
campo del diritto del lavoro aveva reso il lavoro femminile meno
usurante e più sicuro, era stato dichiarato illegittimo, in
riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., l'art. 11 della legge n.
604 del 1966, nella parte in cui prevedeva il conseguimento della
pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna
lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo
anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per
l'uomo. In altri termini, si riconosceva,
alla medesima lavoratrice, la scelta se essere collocata a riposo alla
stessa età degli uomini, conservando la piena tutela contro il
licenziamento ingiustificato, o se andare in pensione anticipatamente.
Restava tuttavia in vigore la previsione, contenuta nell'art. 4
della legge n. 903 del 1977, dell'onere, per la donna che scegliesse
di restare in servizio oltre l'età pensionistica, di comunicare al
datore di lavoro tale opzione tre mesi prima della data di scadenza,
pena la perdita da parte della stessa della tutela contro i
licenziamenti ingiustificati. Ebbene, anche tale previsione, in tutto
corrispondente a quella oggetto dell'odierna questione, veniva
dichiarata illegittima, in riferimento agli artt. 3 e 37 della
Costituzione, con la sentenza n. 498 del 1998, “nella parte in cui
subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per
la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino
agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni
legislative, regolamentari e contrattuali, all'esercizio di un'opzione
in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di
maturazione dei predetti requisiti”. Nella citata pronuncia, la Corte
affermava che anche la previsione di un simile onere discrimina «la
donna rispetto all'uomo per quanto riguarda l'età massima di durata
del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e,
quindi, la protrazione del rapporto […], non avendo la detta opzione
alcuna ragionevole giustificazione, e […] risultando leso il principio
della parità uomo-donna in materia di lavoro», e ribadiva che «l'età
lavorativa deve essere eguale per la donna e per l'uomo, mentre rimane
fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al
cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze
peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il
fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali
profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che
meritano una particolare regolamentazione».
3. - La questione sottoposta ora all'esame della Corte è fondata
in relazione ai medesimi parametri degli artt. 3 e 37 della
Costituzione.
Nessuna delle disposizioni di legge intervenute in materia
nell'arco temporale intercorso tra le disposizioni dichiarate
illegittime da questa Corte e l'odierna questione di costituzionalità
ha in alcun modo alterato i termini del problema.
Nel periodo indicato, ben vero, si è realizzato, a più scaglioni,
un complessivo spostamento in avanti dell'età pensionistica di uomini
e donne. L'art. 1 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il
riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e
pubblici, a norma dell'art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
emesso in attuazione di tale legge, ha infatti disposto, secondo
quanto indicato in una tabella allegata al decreto stesso poi
sostituita dall'art. 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure
di razionalizzazione della finanza pubblica), per il periodo compreso
tra il primo gennaio 1994 e il 31 dicembre 1999, una elevazione
graduale dei limiti di età rispettivamente previsti per gli uomini e
per le donne (compresa, per i primi, tra i sessantuno e i
sessantaquattro anni e per le donne tra i cinquantasei e i
cinquantanove anni) fino a pervenire, con la disciplina “a regime”,
decorrente dal 1° gennaio 2000, alla introduzione del limite di
sessantacinque anni di età per gli uomini e sessanta anni per le
donne.
Tali interventi normativi, tuttavia, non hanno inciso sulla
persistente validità delle precedenti statuizioni di questa Corte, in
quanto non hanno determinato alcuna alterazione della portata e
dell'incidenza della disposizione oggi censurata, identica a quella
già dichiarata incostituzionale.
Infatti, come questa Corte ha già chiarito nella sentenza n. 256
del 2002, «le innovazioni introdotte […] non hanno violato il
principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo
all'età lavorativa, più volte affermato da questa Corte in quanto
sancito dagli artt. 3 e 37 della Costituzione. Infatti, mentre le
diverse disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità
di fare ricorso al pensionamento c.d. posticipato, originariamente
introdotto dall'art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni
in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n.
54, non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei
due sessi, le altre disposizioni hanno esclusivamente innalzato i
limiti della età pensionabile perpetuando in riferimento a tale età,
sia pure con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente
tra uomini e donne, la quale continua a costituire un giustificato
beneficio per queste ultime, ma non hanno in alcun modo reintrodotto
per le donne la correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa.».
4. - La disposizione censurata con l'odierno incidente di
costituzionalità, ha dunque introdotto, in un contesto normativo non
alterato, per quanto rileva in questa sede, dalle pur numerose novità
legislative apportate, una norma dal medesimo contenuto precettivo
dell'art. 4 della legge n. 903 del 1977, la cui illegittimità
costituzionale è stata dichiarata da questa Corte con la citata
sentenza n. 498 del 1998. Tale disposizione, nel subordinare il
riconoscimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato al
rispetto di un onere di comunicazione perfettamente coincidente con
quello già dichiarato illegittimo da questa Corte, realizza la
medesima discriminazione tra lavoro maschile e lavoro femminile già
stigmatizzata in tale occasione.
Anche nella disposizione oggi censurata, l'onere
di comunicazione posto a carico della lavoratrice, infatti,
condizionando il diritto di quest'ultima di lavorare fino al
compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un
adempimento – e, dunque, a un possibile rischio – che, nei fatti, non
è previsto per l'uomo, compromette ed indebolisce la piena ed
effettiva realizzazione del principio di parità tra l'uomo e la donna,
in violazione dell'art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna
ragionevole giustificazione, e dell'art. 37 Cost., risultando
nuovamente leso il principio della parità uomo-donna in materia di
lavoro.
Né la reintroduzione di un istituto, quale l'onere di
comunicazione, già dichiarato illegittimo da questa Corte può essere
ritenuta giustificata in ragione di una maggiore considerazione delle
esigenze organizzative del datore di lavoro, dato che, proprio per
effetto dell'invocata declaratoria di illegittimità costituzionale,
quest'ultimo, nell'organizzare il proprio personale dovrà considerare
come normale la permanenza in servizio della donna oltre l'età
pensionabile e come meramente eventuale la scelta del pensionamento
anticipato, nella prospettiva, già indicata da questa Corte, della
tendenziale uniformazione del lavoro femminile a quello maschile.
5. - Va dunque dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della
Costituzione, l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 del d.lgs.
11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e
donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che
intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno
di età, l'onere di dare tempestiva comunicazione della propria
intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima
della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia,
e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l'applicazione
al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui
licenziamenti individuali.
6. - Le questioni relative agli artt. 4 e 35 della Costituzione
restano assorbite.
per questi motivi
la corte costituzionale
dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 del decreto legislativo 11
aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna),
nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda
proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età,
l'onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al
datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di
perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte
in cui fa dipendere da tale adempimento l'applicazione al rapporto di
lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti
individuali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 19 ottobre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA |