SENTENZA N. 223
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici
: Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,
Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 9,
commi 2, 21 e 22 e 12, commi 7 e 10 del decreto-legge 31 maggio 2010, n.
78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30
luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale
della Campania, sezione distaccata di Salerno, con ordinanza del 23
giugno 2011, dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte con
ordinanza del 28 luglio 2011, dal Tribunale amministrativo regionale del
Veneto con ordinanza del 15 novembre 2011, dal Tribunale regionale di
giustizia amministrativa di Trento con ordinanza del 14 dicembre 2011,
dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia con ordinanza del
14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo,
sezione di Pescara, con ordinanza del 13 dicembre 2011, dal Tribunale
amministrativo regionale dell’Umbria, con due ordinanze del 25 gennaio
2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con
ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale
della Liguria, con ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale
amministrativo regionale della Calabria, sezione staccata di Reggio
Calabria, con due ordinanze del 1° febbraio 2012, dal Tribunale
amministrativo regionale della Emilia-Romagna, sezione staccata di
Parma, con ordinanza del 22 febbraio 2012, dal Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia, con ordinanza dell’11 gennaio 2012 e dal
Tribunale amministrativo regionale della Liguria, con ordinanza del 10
gennaio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 219 e 248 del registro
ordinanze 2011 ed ai nn. 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 75, 76, 81
e 94 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn.
7, 9, 14, 15, 17, 18, 19 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Allegro Anna ed altri, di
Baglivo Antonio ed altri, di Bruni Bruno Francesco ed altri, di Abate
Francesco ed altri, di Bruno Eleonora ed altri, di Campo Lucia Anna ed
altri, di Angeleri Alessandra ed altri, di Chiappiniello Agostino ed
altri, di Anedda Ornella ed altri, di Casanova Cinzia ed altri, di Arena
Annalisa ed altri, di Cicciò Giacomo, di Interlandi Caterina ed altri,
nonchè gli atti di intervento di Abbritti Paolo e del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2012 il Giudice
relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Vittorio Angiolini per Allegro Anna ed
altri, per Baglivo Antonio ed altri, per Bruni Bruno Francesco ed altri,
per Abate Francesco ed altri, per Bruno Eleonora ed altri, per Campo
Lucia Anna ed altri, per Angeleri Alessandra ed altri, per Anedda
Ornella ed altri, per Casanova Cinzia ed altri, per Arena Annalisa ed
altri, per Cicciò Giacomo, per Interlandi Caterina ed altri, Sandro
Campilongo per Chiappiniello Agostino ed altri, e l’avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania,
sezione distaccata di Salerno, sezione I, con ordinanza del 23 giugno
2011, iscritta al reg. ord. n. 219 del 2011, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53 e 104, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito,
con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
1.1.— Il rimettente premette che i ricorrenti – tutti
magistrati ordinari in servizio presso Uffici giudiziari ricompresi
nell’ambito di competenza territoriale del giudice adito – chiedevano al
TAR la declaratoria di illegittimità delle decurtazioni del rispettivo
trattamento retributivo, derivanti dalla applicazione delle disposizioni
finanziarie contenute nel comma 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010,
domandando altresì il consequenziale riconoscimento del diritto al
trattamento retributivo, senza tener conto delle riduzioni contestate. I
magistrati istanti prospettavano in particolare il vizio di violazione
di legge sotto plurimi profili, nonché l’illegittimità costituzionale
della normativa primaria.
Nel giudizio, costituitesi le Amministrazioni intimate,
Ministero della Giustizia e Ministero dell’Economia e delle Finanze,
veniva fissata udienza per la discussione dell’istanza cautelare e
veniva spiegato atto di intervento.
1.1.1.— Il TAR ritiene, in primo luogo, che la questione
prospettata sia rilevante, in quanto la disposizione censurata
costituirebbe «l’unico ed immediato paradigma normativo di riferimento
delle contestate misure applicative». Inoltre, la questione non sarebbe
manifestamente infondata, in particolare con riguardo all’art. 9 comma
22 del d.l. n. 78 del 2010, quale risultante dalle modifiche introdotte
con la legge di conversione.
1.1.2.— In particolare, per quanto riguarda le misure
incidenti sugli automatismi stipendiali che caratterizzano la
progressione economica, il giudice a quo rileva che il meccanismo di
blocco prefigurato si porrebbe in contrasto con l’art. 104, primo comma,
Cost., in quanto violerebbe il principio per cui il trattamento
economico dei magistrati non sarebbe «nella libera disponibilità del
potere, legislativo o maiori causa del potere esecutivo» trattandosi di
un aspetto essenziale all’attuazione del precetto costituzionale
dell’indipendenza. Un tale assunto sarebbe stato più volte ribadito
dalla Corte costituzionale, secondo cui il cosiddetto adeguamento
automatico rappresenterebbe un elemento intrinseco della struttura delle
retribuzioni dei magistrati, diretto alla «attuazione del precetto
costituzionale dell’indipendenza» (sentenza n. 1 del 1978), in modo da
evitare che questi «siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei
confronti di altri poteri» (sentenza n. 42 del 1993), concretizzando
dunque “una guarentigia” (sentenza n. 238 del 1990). Inoltre, tale
tradizione costituzionale sarebbe confermata dagli artt. 2 e 4 della
cosiddetta Magna carta dei Giudici, approvata a Strasburgo il 17
novembre 2010 dal Consiglio d’Europa – Comitato consultivo dei Giudici
europei (CCJE), la quale, sebbene priva di valore cogente, costituirebbe
comunque una fondamentale deliberazione, utile al fine di interpretare
le disposizioni interne, esprimendo tale atto «tradizioni
costituzionali» dei quarantasette Stati europei che ne sono membri.
Il rimettente ritiene, quindi, che, alla luce della citata
giurisprudenza e dei citati principi, dovrebbe ritenersi che il
trattamento economico dei magistrati debba essere non soltanto
«adeguato» alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della
Costituzione), ma anche «certo e costante, e in generale non soggetto a
decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)».
1.1.3.— Quanto alla riduzione percentuale dell’indennità
integrativa speciale (rectius giudiziaria), il rimettente ritiene, in
primo luogo, che, alla luce del contesto normativo, essa si
concreterebbe in una prestazione patrimoniale imposta di natura
sostanzialmente tributaria e, quindi, come tale assoggettata ai vincoli
di cui agli artt. 23 e 53 della Carta costituzionale. Tale misura,
indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, avrebbe dovuto gravare su
“tutti” i cittadini in ragione della loro capacità contributiva, in
virtù del principio di generalità delle imposte, in un sistema informato
a criteri di progressività.
A giudizio del TAR, il requisito della capacità
contributiva, di cui all’art. 53 Cost., inteso quale “valore” diretto ad
orientare la discrezionalità del legislatore di fronte ai fenomeni
tributari, si sostanzierebbe in quello per cui «a situazioni uguali,
corrispondono tributi uguali», sicchè il sacrificio patrimoniale che
incida soltanto sulla condizione e sul patrimonio di una determinata
categoria di pubblici impiegati, lasciando indenni, a parità di capacità
reddituale, altre categorie di lavoratori (“segnatamente autonomi”),
risulterebbe arbitrario ed irragionevole, e pertanto in contrasto, non
solo con l’art. 53, ma anche con l’art. 3 della Costituzione.
In questo caso, inoltre, trattandosi di una indennità,
componente essenziale del trattamento retributivo soltanto dei
magistrati, l’intervento di abbattimento si sostanzierebbe in un
selettivo ed odioso tributo speciale ratione subiecti.
Ancora, a giudizio del rimettente tale “tributo” sarebbe
“sostanzialmente regressivo”, in quanto, essendo l’indennità (ex art. 3
della legge 19 febbraio 1981, n. 27 –Provvidenze per il personale di
magistratura) corrisposta in misura uguale ad ogni magistrato, la sua
decurtazione finisce in concreto per colpire in misura minore i
magistrati con retribuzione complessiva più elevata ed in misura
maggiore i magistrati con retribuzione complessiva inferiore, in
violazione, del canone di cui al secondo comma dell’art. 53 Cost.
Inoltre, anche tale intervento finanziario, sarebbe in
contraddizione con il citato principio per cui il trattamento economico
dei magistrati «non può ritenersi nella libera disponibilità del
Legislativo o dell’Esecutivo», trattandosi anche in questo caso di
aspetto essenziale per attuare il precetto costituzionale
dell’indipendenza (art. 104, primo comma, Cost.).
Per altro verso, poi, il rimettente evoca il contrasto con
l’art. 36 della Costituzione, in quanto essendo il trattamento economico
del magistrato considerato adeguato, solo in quanto integrato dalla
indennità in oggetto, la decurtazione di quest’ultima non potrebbe che
incidere sulla proporzione tra la retribuzione complessiva del
magistrato ed il lavoro giudiziario svolto, determinando una alterazione
dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi.
Infine, il giudice a quo censura il citato art. 9, comma
22, per violazione dell’art. 3 Cost., anche perché l’omogenea riduzione
percentuale di un’indennità, che è evidentemente destinata a compensare
gli oneri del lavoro giudiziario, finirebbe per compensare in modo
minore i magistrati con minore anzianità di servizio, notoriamente
impegnati in sedi disagiate con esposizione a rischi ed oneri spesso di
fatto maggiori dei colleghi più anziani.
1.2.— Il Tribunale amministrativo regionale per il
Piemonte, sezione II, con ordinanza del 28 luglio 2011, iscritta al reg.
ord. n. 248 del 2011, ha analogamente sollevato, in riferimento agli
articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 111
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.
1.2.1.— Anche in questo caso il rimettente premette di
essere investito di ricorsi da parte di magistrati appartenenti
all’ordine giudiziario, per ottenere il riconoscimento delle
retribuzioni ad essi spettanti, senza le riduzioni operate in forza
delle norme censurate, di cui viene sospettata l’illegittimità
costituzionale. In particolare, poi, l’ordinanza di rimessione precisa,
in questo caso, che le censure esposte in ricorso non riguardano i
“sacrifici” economici richiesti a tutte le componenti del lavoro
pubblico, bensì soltanto «la lesione che deriva all’indipendenza dei
componenti della Magistratura, alla quale è funzionale la adeguatezza
del trattamento economico e soprattutto la sottrazione a scelte
discriminatorie di altri poteri dello Stato».
1.2.2.— Il giudice a quo premette ancora che la normativa
censurata si ricava dal coacervo normativo dei commi 21 e 22 dell’art. 9
del d.l. n. 78 del 2010, in quanto per i magistrati, così come per tutte
le altre categorie del personale non contrattualizzato, viene introdotto
il blocco dei «meccanismi di adeguamento retributivo» previsto dal primo
periodo del comma 21, la cui operatività è estesa sia a livello di
acconto che a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo)
dal primo periodo del comma 22; per i soli magistrati (di tutte le
magistrature), a differenza delle altre categorie del personale non
contrattualizzato, sono poi salvaguardati i meccanismi di «progressione
automatica dello stipendio», ossia gli scatti di carriera, non
applicandosi ai medesimi il periodo secondo e terzo del comma 21.
In definitiva, ai soli magistrati viene operata una
riduzione crescente nel tempo dell’indennità giudiziaria (ex art. 3
della legge n. 27 del 1981), come previsto dal secondo periodo del comma
22, vengono bloccati gli acconti (anni 2011, 2012 e 2013) e conguagli
(triennio 2010-2012) e vengono introdotti, sempre in forza del comma 22,
“tetti” all’acconto per l’anno 2014 (che non può superare quello del
2010) e al conguaglio per l’anno 2015 (determinato con riferimento agli
anni 2009, 2010 e 2014, escludendo quindi il triennio 2011-2013).
1.2.3.— In punto di rilevanza il TAR osserva che —
trattandosi di norme di immediata applicazione, giacché le parti
ricorrenti subiscono nel corrente anno 2011 il blocco del meccanismo di
adeguamento retributivo, nonché il blocco di acconti e conguagli cui
avrebbe avuto altrimenti diritto, oltre ad avere già subito la
decurtazione della indennità giudiziaria — la domanda di riconoscimento
del diritto al mantenimento della precedente disciplina del trattamento
economico non potrebbe essere esaminata senza il preventivo scrutinio di
costituzionalità del citato art. 9, comma 22.
1.2.4.— Nel merito l’ordinanza ripercorre le motivazioni
dell’analogo atto di rimessione del TAR Campania, già sintetizzato ed
espressamente richiamato negli atti.
A giudizio del TAR Piemonte le norme censurate si
porrebbero in contraddizione con i precetti costituzionali
dell’autonomia e dell’indipendenza, di cui agli artt. 101 e 104, Cost.,
valori, peraltro, a loro volta funzionali «all’esercizio imparziale ed
obiettivo della funzione giudicante, come esigono molteplici norme
costituzionali anche in vista della celebrazione di un “giusto” processo
(cfr. artt. 24, 103 e 111 Cost.; sentenza n. 381 del 1999)». In questo
senso, il rimettente osserva che uno strumento formalmente incidente
solo sulla retribuzione del magistrato, condurrebbe in realtà ad un
indebito condizionamento sull’esercizio della funzione giurisdizionale,
costringendo l’Ordine di appartenenza, ed addirittura il singolo
magistrato, ad un confronto con il pubblico potere al fine di
ripristinare le proprie condizioni economiche, «generando un sotterraneo
conflitto tra Istituzioni che mina alla radice la serenità del Giudice».
Tali conseguenze, poi, sarebbero ancora più evidenti, in
quanto «associando la riduzione stipendiale alle ben note polemiche tra
poteri dello Stato», «la misura legislativa potrebbe apparire come una
sorta di punizione o di monito per il Potere giudiziario», rendendo
manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia gerarchica
di un Potere sull’altro, in contrasto «con i dettami costituzionali che
improntano i rapporti tra Poteri alla separazione, all’equilibrio ed al
bilanciamento». Del resto, i principi evocati sarebbero volti a tutelare
anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la
pubblica opinione, assicurando la dignità dell’intero ordine
giudiziario. In tal senso si sarebbe peraltro espresso il Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa, nella raccomandazione del 17 novembre
2010.
1.2.5.— Quanto alla violazione degli artt. 3, 23, 36 e 53,
Cost., il rimettente ripropone in misura del tutto coincidente le
argomentazioni sottese all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 219 del
2011, in particolare quanto alla decurtazione dell’indennità
giudiziaria, che configurerebbe un prelievo avente natura di prestazione
patrimoniale, imposta sostanzialmente tributaria, in cui il sacrificio
patrimoniale incide soltanto su di una determinata categoria di pubblici
impiegati, lasciando indenni, a parità di capacità reddituale, altre
categorie di lavoratori. Inoltre, il contrasto con l’art. 36, Cost.
sarebbe evidente in quanto le misure adottate finirebbero per alterare
la “proporzione” fra la retribuzione del magistrato ed il suo lavoro
giudiziario, inteso complessivamente come l’insieme delle attività
materiali, delle attività giuridiche, delle responsabilità e degli oneri
su di esso gravanti.
1.3.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia,
sezione I, con ordinanza del 14 dicembre 2011, iscritta al reg. ord. n.
20 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53,
97, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111 e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9,
comma 22, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.
1.3.1.— Il rimettente premette in questo caso che non
risulta oggetto di specifica domanda nel giudizio a quo l’accertamento
dell’illegittimità della trattenuta stipendiale operata su tutti i
pubblici dipendenti, ivi compresi i magistrati, in base al comma 2
dell’art. 9 del medesimo d.l. n. 78 del 2010.
1.3.2.— Secondo il giudice rimettente, la questione sarebbe
rilevante in quanto l’eventuale pronuncia di incostituzionalità
determinerebbe de plano l’accertamento dell’illegittimità del mancato
adeguamento degli stipendi e delle trattenute ed il consequenziale
accoglimento del ricorso. In particolare, limitatamente alle parti della
norma relative all’adeguamento triennale, il TAR per la Sicilia ritiene
di non seguire l’interpretazione costituzionalmente orientata
sollecitata in via principale dai ricorrenti, secondo cui non contenendo
la norma impugnata specificazioni in ordine a quali siano gli acconti e
i conguagli oggetto di mancata erogazione, essa di fatto non potrebbe
trovare applicazione; ciò in quanto il meccanismo retributivo del
personale di magistratura sarebbe sufficientemente chiaro, perché
determinato in base degli incrementi conseguiti nel precedente triennio
dalle altre categorie del pubblico impiego e realizzato mediante due
acconti di pari importo nel secondo e nel terzo anno del triennio, con
un successivo conguaglio.
1.3.3.— In primo luogo, il rimettente assume che le
disposizioni riguardanti sia il blocco degli automatismi stipendiali per
il triennio 2011-2013, sia il taglio della indennità speciale di cui
all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981 contrastino con gli articoli
101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., espressione dei principi
di autonomia ed indipendenza della magistratura, funzionali a loro volta
alla celebrazione del giusto processo di cui all’art 111, primo e
secondo comma, Cost. A giudizio del TAR, la necessità di garantire un
processo giusto ed equo davanti ad un tribunale indipendente sarebbe
rinvenibile anche nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, che, per il tramite dell’art. 117, primo comma, della
Costituzione, «è entrata a far parte diretta del nostro tessuto
costituzionale».
La Corte costituzionale avrebbe, in più occasioni,
precisato come il precetto costituzionale dell’indipendenza della
magistratura debba essere salvaguardato anche sotto il profilo economico
ed, in particolare, in riferimento al meccanismo di adeguamento
automatico, avrebbe ulteriormente osservato come esso, evitando che i
magistrati siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di
altri poteri, concretizzi «una guarentigia idonea a tale scopo»
(sentenza n. 238 del 1990, ordinanze n. 137 del 2008 e n. 346 del 1998).
Ciò posto, anche la speciale indennità giudiziaria e la sua
rivalutazione, in quanto intrinsecamente connessa allo status di
magistrati e parte essenziale e “normale” del trattamento economico,
avrebbe tale scopo e le medesime esigenze di tutela. Anche in questo
caso la Corte costituzionale avrebbe, infatti, ricondotto la
rivalutazione di tale indennità a quella ratio di tutela
dell’indipendenza, che non potrebbe essere negata, dunque al trattamento
principale (in particolare, viene invocata la citata sentenza n. 238 del
1990).
Tale tradizione costituzionale sarebbe confermata dalla
«Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 sui giudici: indipendenza, efficacia e
responsabilità», atto adottato a Strasburgo dal Comitato dei Ministri il
17 novembre 2010, al cui punto 54 si afferma che la retribuzione dei
magistrati debba essere tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione
volta ad influenzare le loro decisioni» e si invita gli Stati membri ad
adottare «specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa
essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente
ai giudici».
Analogamente concluderebbe la cosiddetta Magna Carta dei
Giudici, approvata a Strasburgo il 17 novembre 2010 dal Comitato
consultivo dei Giudici europei (CCJE), che, sebbene priva di valore
cogente, esprimerebbe comunque le tradizioni costituzionali dei 47 Stati
membri.
1.3.3.1.— Sotto altro profilo, poi, il giudice a quo
ritiene che l’intervento finanziario in questione, mediante uno
strumento che apparentemente incide solo sulla retribuzione del
magistrato, è in grado di operare un indebito condizionamento
sull’esercizio della funzione giurisdizionale, costringendo il
magistrato ad un confronto con il pubblico potere al fine di elidere o
attenuare le conseguenze negative della misura, generando in tal guisa
un sotterraneo conflitto tra Istituzioni che mina alla radice la
serenità del giudice e rischia di veder diminuito il credito ed il
prestigio di cui il singolo magistrato e l’Ordine giudiziario devono
godere presso la comunità dei cittadini.
La disciplina censurata potrebbe, anzi, apparire come una
sorta di punizione o di monito per il potere giudiziario, rendendo
manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia gerarchica
di un potere sull’altro, ingenerando l’idea di un magistrato
“influenzabile” dalla consapevolezza che il taglio stipendiale disposto
oggi potrebbe ben essere ripetuto o addirittura inasprito, in spregio
proprio ai principi costituzionali di autonomia ed indipendenza. Ritiene
il rimettente, infatti, che sebbene al legislatore sia consentito
bilanciare tali principi con altri valori costituzionali in ipotesi
configgenti, fra i quali quelli del rispetto delle esigenze di bilancio
e di contenimento della spesa pubblica, tuttavia un intervento sui
meccanismi retributivi dei magistrati, avrebbe dovuto essere adottato
«in uno scenario di coinvolgimento di tutti i contribuenti secondo i
principi di pari capacità contributiva e progressività», nel rispetto
dei principi di proporzionalità, ragionevolezza ed eguaglianza e non
attraverso una manovra irrazionale, sproporzionata e discriminatoria.
1.3.4.— Il TAR per la Sicilia dubita della legittimità
costituzionale della disciplina in esame anche perché essa violerebbe
gli artt. 3, 53, primo e secondo comma, della Costituzione.
Tutte le disposizioni contenute nel comma 22, ma anche
quelle contenute nei commi 1 e 21 dell’art. 9 citato, introdurrebbero,
nel loro complesso, misure finalizzate ad incidere in maniera
consistente sul trattamento economico dei magistrati per gli anni 2011,
2012 e 2013 (ed anche per l’anno 2014). A giudizio del collegio
rimettente tali interventi, anche se presentati come mere misure di
riduzione della spesa pubblica, avrebbero in realtà natura tributaria, e
conseguentemente avrebbero dovuto essere assoggettati ai principi di
universalità, capacità contributiva e progressività di cui all’art. 53
della Costituzione.
Le disposizioni in oggetto avrebbero tutte le
caratteristiche elaborate dalla giurisprudenza di questa Corte per
qualificare come tributarie alcune entrate. In particolare, si
tratterebbe di una prestazione doverosa, in mancanza di un rapporto
sinallagmatico tra le parti e collegata alla pubblica spesa in relazione
ad un presupposto economicamente rilevante (sentenze n. 141 del 2009, n.
335 del 2008, n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005). Non vi
sarebbe dubbio, infatti, in primo luogo, che le trattenute operate siano
state effettuate dallo Stato «a prescindere da qualsivoglia rapporto
sinallagmatico, nel senso che esse non trovano ragione in una
controprestazione in favore del dipendente ma sono imposte in via
autorititativa». Inoltre, esse si collegherebbero senz’altro alla spesa
pubblica, come sarebbe evidente dall’incipit del comma 2 dell’art. 9,
che giustifica l’intervento: «In considerazione della eccezionalità
della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze
prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
concordati in sede europea». Tale formulazione renderebbe infatti
evidente che la ratio delle disposizioni collega la peculiarità degli
strumenti utilizzati dal legislatore d’urgenza del 2010 ad obiettivi di
carattere finanziario, «ossia alla messa a disposizione di risorse
economiche per le esigenze dell’Erario».
L’imposizione di un sacrificio economico individuale,
realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, e la
destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di
integrare la finanza pubblica, apprestando i mezzi per il fabbisogno
finanziario necessario a coprire spese, costituirebbero, dunque, proprio
quegli elementi essenziali dei tributi individuati dalla giurisprudenza
costituzionale.
In definitiva, secondo il rimettente, la qualificazione
come mera riduzione di spesa non potrebbe elidere la vera natura
tributaria delle misure, poiché «ogni imposizione tributaria (tassa,
tributo o contributo), che incida sugli stipendi dei pubblici dipendenti
decurtandoli, si risolve sul piano effettuale in una riduzione della
spesa pubblica, ma per ciò solo non muta la propria natura», che non
potrebbe essere ricavata dall’effetto di bilancio che tali disposizioni
producono, ma dalla loro natura intrinseca.
Ciò posto, secondo il TAR sarebbe evidente l’illegittimità
dell’art. 9, comma 22 (ed anche della disposizione non censurata
riguardante il “contributo di solidarietà”), in quanto incidente sul
reddito di una sola “micro categoria” sociale, quella dei magistrati. Il
legislatore avrebbe, infatti, a parità di capacità contributiva ed in
violazione dell’art. 53 della Costituzione, deciso di colpire, con
misure continuative – prolungate nel triennio 2011-2013 (con possibile
estensione al 2014) ed in parte al biennio 2014-2015 – solo una
determinata classe sociale: i dipendenti pubblici (quanto al comma 2
dell’art. 9), e «con misure ancora più incisive rispetto agli stessi
dipendenti pubblici, una ancora più particolare e ristretta classe di
contribuenti, i magistrati», realizzando «un tributo odioso e speciale
ratione subiecti» (TAR Campania, ordinanza di rimessione n. 1162 del
2011). Non solo ma tale violazione sarebbe ancor più grave in quanto
riferita proprio a quella categoria di contribuenti la cui tutela del
trattamento stipendiale risponderebbe a quei principi di natura
costituzionale specifici, di cui alla prima censura.
1.3.4.1.— Quanto specificamente al taglio dell’indennità
giudiziaria, il rimettente ne denuncia anche la violazione del principio
di progressività e di ragionevolezza intrinseca, in quanto, trattandosi
di una componente della retribuzione corrisposta in misura fissa, il
prelievo inciderebbe in misura inversamente proporzionale alla capacità
contributiva del singolo magistrato. Sebbene, infatti, i criteri di
progressività debbano informare il ‘‘sistema tributario’’ nel suo
complesso e non i singoli tributi, la scelta adottata dal legislatore di
incidere sul presupposto economico del reddito da lavoro, per coerenza
di sistema e ragionevolezza avrebbe dovuto imporre la progressività,
«atteso che tale natura ha l’I.r.p.e.f., ossia la principale imposta sul
reddito delle persone fisiche, e quindi anche sul reddito da lavoro
dipendente».
1.3.4.2.— Il TAR per la Sicilia dubita ancora della
legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 (ma anche del
predetto contributo di solidarietà non impugnato) per violazione dei
principi di eguaglianza, ragionevolezza legislativa e di solidarietà
sociale, politica ed economica di cui agli artt. 2 e 3 della
Costituzione. Posto che la matrice comune di tali interventi finanziari
sarebbe costituita dalla straordinaria necessità di contenere la spesa
pubblica e di perseguire finalità di stabilizzazione finanziaria e
rilancio della competitività economica, al fine di fronteggiare la ben
nota crisi economica nazionale ed internazionale, essi avrebbero dovuto
riguardare la collettività nel suo insieme, in virtù dei “doveri
inderogabili” di cui all’art. 2, e non solo i redditi da lavoro
dipendente pubblico e, in misura maggiore, i redditi da lavoro
dipendente dei soli magistrati, con esclusione delle identiche
condizioni di tutti i percettori di reddito aventi la stessa capacità
contributiva.
Sotto altro profilo, l’art. 3, Cost. sarebbe violato in
considerazione del diverso trattamento riservato per altri redditi da
lavoro (autonomo o dipendente privato), non essendo rinvenibile alcuna
ratio giustificativa per la quale «i lavoratori del settore privato
(dipendenti o autonomi) non debbano essere assoggettati a riduzioni
stipendiali, con corrispondente introito a vantaggio dell’Erario»,
tenuto peraltro conto che le retribuzioni del settore privato,
«specialmente ai livelli dirigenziali e manageriali delle imprese, per
non parlare dei professionisti più facoltosi (ad esempio i notai e i
farmacisti ma anche i più affermati tra gli avvocati, i medici
specialisti, gli ingegneri, gli architetti), risultano enormemente più
elevate di quelle del settore pubblico».
A giudizio del rimettente, la violazione degli artt. 2 e 3
della Costituzione risulterebbe evidente in quanto gli interventi
contenuti nella manovra tratterebbero ingiustificatamente in maniera
diversa le categorie di pubblici dipendenti, pur a fronte di una
identica situazione reddituale. Mentre, infatti, per tutti i pubblici
dipendenti, nel triennio 2011-2013 i trattamenti retributivi, sino alla
soglia di 90.000 euro lordi annui non possono aumentare, ma neppure
decrescono, in forza del combinato disposto delle disposizioni
censurate, l’unica categoria che vede ridursi il proprio trattamento
economico sarebbe quella dei magistrati, il cui trattamento stipendiale
peraltro risponde ai summenzionati principi di natura costituzionale.
Tale disparità di trattamento sarebbe peraltro ulteriormente confermata
anche in relazione ai pubblici dipendenti che percepiscono più di 90.000
o 150.000 euro annui lordi e che sono tenuti a versare il contributo di
solidarietà. Anche in questo caso, infatti, pur in presenza della
medesima situazione reddituale e contributiva, i soli magistrati
vedrebbero sommarsi al contributo di solidarietà ed al blocco
dell’adeguamento retributivo anche i tagli all’indennità giudiziaria,
con la conseguenza che solo per essi la riduzione dello stipendio
sarebbe sensibilmente maggiore.
1.3.4.3.— Il TAR rimettente invoca, altresì, l’art. 3 Cost.
anche quale espressione del canone di ragionevolezza legislativa.
Infatti, le impugnate disposizioni, per fare fronte ad una
crisi che grava su tutta la popolazione, impongono un sacrificio
rilevantissimo solo ad una categoria ridotta di cittadini, lasciando
indenni i redditi e le retribuzioni di tutti gli altri contribuenti,
aventi medesima capacità contributiva. L’irragionevolezza di tale
intervento legislativo sarebbe vieppiù evidenziato dal fatto che essa
verrebbe ad incidere su un trattamento stipendiale, che risponde a
principi di natura costituzionale.
L’irragionevolezza delle disposizioni impugnate
deriverebbe, inoltre, dall’aver “approfittato” del meccanismo automatico
di adeguamento delle retribuzioni, previsto come guarentigia del
particolare status e della funzione costituzionale svolta dai
magistrati, per ridurre il trattamento economico dei magistrati senza il
loro consenso.
Ancora, espressione dell’irragionevolezza dell’intervento
normativo sarebbe l’incisione in misura uguale su tutti i magistrati,
imponendo «un peso economico in termini proporzionali di gran lunga
superiore a coloro che percepiscono uno stipendio minore perchè agli
inizi della carriera».
1.3.5.— Con riferimento alla sola riduzione dell’indennità
giudiziaria, poi, si deduce la violazione degli artt. 3 e 36 Cost. Per
un verso, infatti, la decurtazione sarebbe irragionevole perché
impedirebbe il raggiungimento dello scopo che la legge n. 27 del 1981
aveva inteso far assolvere all’indennità stessa, ovvero compensare i
magistrati degli oneri che essi incontrano nello svolgimento della loro
attività, non risultando corrispondentemente ridotti gli oneri che sui
magistrati gravano nel triennio di riferimento. Con l’irragionevole
conseguenza che, dovendo i singoli magistrati far fronte a detti oneri
gravanti sulla propria attività, per la parte ora non coperta
dall’indennità, coloro che percepiscono un minor trattamento economico
complessivo avrebbero maggiori difficoltà a fronteggiare i relativi
costi.
Per altro verso, poi, la decurtazione inciderebbe, in
violazione dell’art. 36 Cost., sulla proporzionalità tra prestazione e
retribuzione, poiché inciderebbe solo sull’aspetto quantitativo della
retribuzione, lasciando immutata la richiesta di qualità del servizio e
della funzione, in tal modo minando anche la dignità della
persona-lavoratore nell’esercizio di una delle funzioni più delicate
dello Stato.
Ancora, secondo il rimettente, la violazione degli artt. 3
e 36 Cost., rileverebbe anche sotto un diverso profilo. Sebbene,
infatti, il legislatore sia abilitato a modificare la disciplina dei
rapporti di durata e perfino situazioni di diritto soggettivo perfetto,
ivi inclusa la variazione dell’entità e della distribuzione in voci
differenziate del trattamento economico di categorie prima egualmente
retribuite, non sarebbe consentito che tali modifiche trasmodino in
regole irrazionali o arbitrarie, come nel caso di specie in relazione
alle altre censure di irragionevolezza.
1.4.— Il Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo,
sezione distaccata di Pescara, sezione I, con ordinanza del 13 dicembre
2011, iscritta al reg. ord. n. 46 del 2012, ha sollevato, in riferimento
agli articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104, 107 e 108 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 2 e 22,
del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 122 del 2010.
1.4.1.— Il rimettente premette di essere investito di un
ricorso proposto da alcuni magistrati ordinari.
Il TAR ritiene non manifestamente infondata la questione,
«anche nella scia delle ordinanze del TAR Campania, sezione staccata di
Salerno, n. 1162 del 23 giugno 2011, TAR Piemonte Sez. II, n. 846 del 28
luglio 2011 e TAR Veneto Sez. I, n. 1685 del 15 novembre 2011».
1.4.2.— In particolare, quanto ai parametri indicati dai
ricorrenti, il TAR per l’Abruzzo afferma che rileverebbe il principio
desumibile dall’art. 104 della Costituzione, «per cui il trattamento
economico dei magistrati si collega strettamente al precetto
costituzionale dell’indipendenza dei giudici, che viene garantita anche
dall’adeguamento automatico delle retribuzioni, sostanzialmente
decurtato dalla normativa in questione».
Inoltre, la prevista riduzione dell’indennità
sostanzierebbe, sotto diverso profilo, anche la violazione sia del
principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., sia del principio di
ragionevolezza e di trattamento uguale di situazioni uguali.
Ancora, viene evidenziato il contrasto con l’art. 36 Cost.,
essendo alterata in modo significativo la proporzione prevista fra il
trattamento economico dei magistrati e l’attività svolta.
1.4.3.— Il rimettente, inoltre, ritiene che la decurtazione
in esame, in quanto avente natura sostanzialmente tributaria,
contrasterebbe con gli artt. 23 e 53 della Costituzione, in quanto
riguarderebbe unicamente, o quasi, la categoria dei magistrati,
alterando il principio di progressività delle imposte, con un’evidente
disparità di trattamento rispetto agli alti dirigenti dello Stato e
delle Aziende pubbliche.
Tanto varrebbe, a maggior ragione, per il contributo
straordinario di cui all’art. 9, comma 2, per gli stipendi superiori ai
90.000 euro annui; esso riguarderebbe quasi unicamente i magistrati e da
cui sarebbero esenti, non solo i dipendenti privati e gli autonomi, ma
anche altri dipendenti pubblici, che godrebbero di una diversa struttura
retributiva.
1.5.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto,
sezione I, con ordinanza del 15 novembre 2011, iscritta al reg. ord. n.
11 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 36, 53,
97, 101, 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 9, commi 2 e 22, del decreto-legge n. 78 del 2010,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.
Il rimettente censura l’art. 9, comma 22, per le identiche
motivazioni contenute nelle ordinanze iscritte al reg. ord. n. 219 e n.
248 del 2011. In particolare, richiamando la giurisprudenza
costituzionale in materia, assume che le norme impugnate si pongono in
contraddizione con il principio (desumibile dall’art. 104, primo comma,
Cost.), secondo cui il trattamento economico dei magistrati non può
ritenersi nella libera disponibilità del potere legislativo o del potere
esecutivo, trattandosi di un aspetto essenziale per attuare il precetto
costituzionale dell’indipendenza. Il legislatore avrebbe operato un
indebito condizionamento dell’esercizio della funzione magistratuale,
mettendo a rischio il credito e quel prestigio di cui la magistratura
dovrebbe godere presso la comunità dei cittadini.
Quanto, in particolare, all’indennità giudiziaria,
trattandosi di una componente “normale” del trattamento economico,
sebbene introdotta a titolo “speciale” (in quanto preordinata a
compensare i magistrati degli «oneri che gli stessi incontrano nello
svolgimento della loro attività»), la sua riduzione la renderebbe
inequivocabilmente inidonea allo scopo per il quale era stata istituita,
in violazione anche del principio di ragionevolezza.
L’ordinanza in questione, inoltre, ripercorre, in modo in
larga parte coincidente, le censure relative alla violazione degli artt.
3 e 36 esposte dalla ordinanza n. 20 del 2012, con riguardo
all’indennità giudiziaria, aggiungendo che, colpendo in misura maggiore
i magistrati all’inizio della carriera, conterrebbe in sé anche un
effetto discriminatorio, in violazione dell’art. 3 Cost.
1.6.— Anche il Tribunale regionale di giustizia
amministrativa di Trento, con ordinanza del 14 dicembre 2011, iscritta
al reg. ord. n. 12 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli
3, 36, 53, 97, 101, 104, 108 e 111 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 21, primo periodo, e
22 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 122 del 2010, in un giudizio relativo anche in questo
caso a ricorsi proposti da magistrati ordinari, in relazione alle
decurtazioni stipendiali subite.
Il rimettente premette di aver respinto la domanda
incidentale di misure cautelari e di aver disposto adempimenti
istruttori a carico dell’Amministrazione finanziaria, di quella della
giustizia e dell’INPDAP, che hanno risposto con note pervenute
rispettivamente in data 2 agosto, 21 giugno e 12 agosto 2011.
1.6.1.— Dopo aver proceduto ad una ricostruzione del quadro
normativo in cui si colloca il contenzioso, il Tribunale amministrativo
illustra le modalità con le quali l’amministrazione finanziaria ha
applicato le norme in questione, come riferite dalle amministrazioni in
sede istruttoria.
All’esito dell’attività istruttoria, il TAR ritiene
infondata la prima pretesa dei ricorrenti, per l’accertamento della
«intollerabile incertezza circa le sorti del trattamento economico dei
magistrati», causato dal comma 22, che non sarebbe idoneo a definire il
suo campo di applicazione a causa dell’indeterminatezza dei termini
“acconti” e “conguagli”.
1.6.2.— Ciò posto, dopo aver motivato in ordine alla
rilevanza, in virtù dell’effettiva incidenza sugli stipendi dei
ricorrenti, solleva, in primo luogo, questione di legittimità
costituzionale del comma 21, primo periodo, e del comma 22,
relativamente al mancato adeguamento, per violazione dell’art. 101,
secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, in quanto il
trattamento economico dei magistrati, assistito da “certezza” e da
“continuità” a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine
giudiziario, non sarebbe nella libera disponibilità del Potere
legislativo o del Potere esecutivo e non potrebbe essere soggetto a
irrazionali, sbilanciate, sperequative e sostanzialmente inutili
decurtazioni, le quali, in quanto tali, si presenterebbero comunque
distoniche alla luce dei menzionati principi, che costituiscono
presupposto e requisito essenziale di ogni giusto processo di cui agli
artt. 24, 101 e 111 della Costituzione.
Peraltro, a giudizio del rimettente, le decurtazioni in
parola non avrebbero tenuto conto della giurisprudenza della Corte, in
relazione alla necessità che simili interventi debbano essere
«eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo
prefisso» (cfr., sentenza n. 245 del 1997 e ordinanza n. 299 del 1999).
La manovra in questione sarebbe, invece, solo apparentemente temporanea,
secondo una logica perennemente emergenziale non incidente su alcun
problema strutturale e culturale del «sistema Italia», come «le
percussive ed ancora contingenti» manovre successive avrebbero
dimostrato.
Le norme in questione vengono, inoltre, censurate con
riferimento all’art. 36 della Costituzione, in quanto la retribuzione
dei magistrati, stabilita con legge formale ed aggiornata, solo per
relationem, sarebbe correlata non solo alla generica quantità e qualità
delle funzioni ma anche al ruolo istituzionale e costituzionale svolto,
sicchè colpendo i meccanismi automatici di adeguamento si inciderebbe
sull’adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione, rispetto alle
specifiche funzioni di rilievo costituzionale, delle quali il
legislatore ha tenuto conto nel delineare i corrispondenti meccanismi
retributivi.
1.6.3.— Con riguardo alla decurtazione dell’indennità
giudiziaria, il TAR trentino censura l’apparato normativo utilizzando le
medesime argomentazioni impiegate per l’adeguamento, che ricalcano,
peraltro, in larga misura quanto già riportato sinteticamente in
relazione alle altre ordinanze. Tale indennità, che dovrebbe compensare
gli oneri che i magistrati incontrano, anche in considerazione di un
modello di lavoro “domestico”, in cui l’amministrazione non mette a
disposizione sufficienti mezzi ed uffici in cui svolgere l’attività
istituzionale, perderebbe irragionevolmente, attraverso la sua riduzione
progressiva, il ruolo originario.
Inoltre, viene prospettata anche la violazione dell’art. 36
della Costituzione, che impone sia l’obbligo di rispettare la
proporzionalità tra la retribuzione e il livello quali-quantitativo del
lavoro prestato, che il correlato divieto di diminuire lo stipendio se
non in conseguenza della diminuzione delle prestazioni richieste.
Infine, il rimettente solleva questione di legittimità
costituzionale anche con riferimento alla violazione dell’art. 53 Cost.,
in quanto si tratterebbe di un vero e proprio prelievo forzoso di somme
stipendiali ed indennitarie a copertura di fabbisogni finanziari
indifferenziati dello Stato apparato, non correlato ad alcuna “capacità
contributiva”. Non si tratterebbe, infatti, di un elemento di
arricchimento della sfera del singolo, ma di un semplice ristoro o
rimborso compensativo di oneri che il magistrato deve necessariamente
sostenere, non rivelatore, dunque, di ricchezza statica o dinamica
(patrimonio o reddito).
1.6.4.— La norma viene, poi, complessivamente censurata con
riferimento alla violazione dell’art. 97, primo comma, della
Costituzione, poiché la manovra in questione avrebbe avuto riflessi
negativi sul buon andamento degli uffici dell’Amministrazione della
giustizia. Le gravose misure finanziarie avrebbero, in primo luogo,
contribuito a determinare un “massiccio esodo” di personale dalla
magistratura, provocando in tal modo una repentina perdita non solo di
un ragguardevole numero dei giudici, ma anche di un inestimabile
bagaglio di conoscenze e di esperienze, determinando nel contempo un
aggravio di lavoro sui giudici rimasti. Inoltre, avrebbe influito sul
buon andamento inteso come «regola di svolgimento della funzione», il
cui rispetto sarebbe assicurato da tutti gli strumenti di garanzia
apprestati dalla complessiva organizzazione dell’Amministrazione della
giustizia, fra i quali rientrerebbero anche le condizioni di serenità e
di stabilità delle proprie condizioni economiche, senza dover sopportare
addirittura parte dei costi vivi del servizio.
1.6.5.— A giudizio del Tribunale amministrativo trentino,
inoltre, la disciplina in questione, complessivamente considerata,
violerebbe anche l’art. 3 della Costituzione per disparità di
trattamento fra la categoria dei ricorrenti e quella dei pubblico
impiego contrattualizzato. Osserva in proposito che, mentre per il
triennio 2011-2013 i dipendenti pubblici non subiranno aumenti dello
stipendio ma neppure decurtazioni, in quanto la loro retribuzione
rimarrà complessivamente “cristallizzata” al trattamento dell’anno 2010,
lo sblocco della contrattazione collettiva consentirà ad essi di
recuperare, nelle misure stabilite in sede di trattativa sindacale,
quanto sarebbe loro spettato nel periodo precedente. Diversamente, i
magistrati, non potranno recuperare o vedersi riassegnate le
decurtazioni, con l’ulteriore vincolo peraltro del “tetto” dell’acconto
spettante per l’anno 2014 e del conguaglio per l’anno 2015.
Conseguentemente vi sarebbe una palese disparità di trattamento fra
pubblici dipendenti che hanno identica capacità economica da lavoro
dipendente.
Un simile assetto normativo, inoltre, sarebbe irragionevole
alla luce dell’orientamento della giurisprudenza della Corte
costituzionale, che ha considerato legittimo il blocco per un anno degli
incrementi retributivi in conseguenza di automatismi stipendiali,
collocando tuttavia tale intervento «in un ambito estremo», purché
limitato nel tempo ad un solo anno e non «irrazionalmente ripartito fra
categorie diverse di cittadini» (ordinanza n. 299 del 1999).
1.6.6.— Il rimettente dubita, poi, della legittimità
costituzionale delle disposizioni impugnate anche per violazione del
canone della ragionevolezza intrinseca, in considerazione del fatto che
tali misure risulterebbero incoerenti rispetto al consolidato sistema
retributivo della magistratura rispondente ai valori costituzionali già
ricordati, e sarebbero sproporzionate, illogiche ed inadeguate in
relazione agli effetti sostanzialmente irrisori dei prelievi sulla
diminuzione della spesa pubblica. Tale irrazionalità dell’intervento
celerebbe una ratio punitiva per l’intera magistratura, come dimostrato,
peraltro dalla disposizione introdotta (dopo la proposizione del
giudizio in oggetto e di altri analoghi presso vari TAR) dal comma 7
dell’art. 16 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con
modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui:
«qualora, per qualsiasi ragione, inclusa l’emanazione di provvedimenti
giurisdizionali diversi dalle decisioni della Corte costituzionale; non
siano conseguiti gli effetti finanziari utili conseguenti, per ciascuno
degli stessi anni 2011-2013, alle disposizioni di cui ai commi 2 e 22
dell’articolo 9 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, i medesimi effetti
finanziari sono recuperati, con misure di carattere generale nell’anno
immediatamente successivo nei riguardi delle stesse categorie di
personale cui si applicano le predette disposizioni».
1.7.— Il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria,
sezione I, con ordinanza del 25 gennaio 2012, iscritta al reg. ord. n.
53 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 23, 36,
53, 97, 101, 104 e 108 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 9, commi 2, 21 (ove occorra) e 22, del
decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 122 del 2010.
Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche
situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle ordinanza di
rimessione dei TAR per il Veneto, Campania, Piemonte e Trento, e dopo
aver premesso brevi cenni sull’intervento normativo censurato dai
ricorrenti, ritiene non manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’intervento complessivo.
Si tratterebbe, quanto all’adeguamento, di un intervento
non ragionevole, in primo luogo, perché operato su di un trattamento
retributivo strutturato con automatismi atti a garantire l’autonomia e
l’indipendenza della magistratura.
In secondo luogo, perché aggredirebbe le retribuzioni,
senza quella dimensione solidaristica determinata dalla ripartizione fra
diverse categorie di cittadini, cui si riferiva l’ordinanza n. 299 del
1999.
Inoltre, i disposti blocchi stipendiali violerebbero l’art.
36 della Costituzione, vulnerando la proporzionalità della retribuzione
alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Con riferimento all’indennità giudiziaria, poi, il TAR
sottolinea la violazione dell’art. 36 Cost. in quanto componente
essenziale del trattamento retributivo, ovvero, l’art. 53, primo comma,
Cost. qualora si ravvisasse nella medesima una prestazione di natura
tributaria.
Ancora, viene censurato l’art. 9, comma 2, del più volte
citato decreto-legge, che dispone il prelievo sulle somme eccedenti i
90.000 e 150.000 euro, in relazione alle retribuzioni del pubblico
impiego. Tale disposizione violerebbe, secondo il rimettente, gli artt.
2, 3 e 53, Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti
pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di universalità
dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto
discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina riservata al
contributo di solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per
gli altri cittadini, dall’art. 2 del decreto-legge 13 agosto 2011, n.
138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per
lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre
2011, n. 148, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio,
prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la
deducibilità dal reddito complessivo.
Infine, il prelievo tributario in questione, lederebbe
anche, in maniera irragionevole in quanto intervento non strutturale, ma
temporaneo, il legittimo affidamento sul proprio trattamento
retributivo, in capo al pubblico dipendente che ha parametrato ad esso
il proprio tenore di vita.
1.8.— Il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria,
sezione I, con ordinanza del 25 gennaio 2012, iscritta al reg. ord. n.
54 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 23, 36,
53, 97, 101 e 104 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, commi 2, 21 (ove occorra) e 22, nonché
dell’articolo 12, commi 7 e 10, del decreto-legge n. 78 del 2010,
convertito, con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010.
1.8.1.— Il rimettente premette che il ricorrente,
magistrato contabile in servizio dal 1985, ha chiesto l’accertamento del
proprio diritto al trattamento retributivo nella sua interezza, senza le
decurtazioni prodotte dalle norme di cui all’art. 9 del d.l. n. 78 del
2010, consistenti, a far tempo dall’anno 2011, in una decurtazione
stipendiale di euro 8.671,64 per effetto della riduzione di spesa
coattivamente operata dall’art. 9, comma 2, del predetto d.l. n. 78 del
2010; nel blocco per il triennio 2011-2013 dei meccanismi di adeguamento
retributivo previsto dall’art. 9, comma 2; nella trattenuta della
percentuale della indennità giudiziaria di cui alla legge n. 27 del
1981, pari ad euro 2.013,07 per l’anno 2011, euro 3.355,11 per l’anno
2012, euro 4.294,55 per l’anno 2013, in applicazione dell’art. 9, comma
22. Infine, il ricorrente assume che, al momento della cessazione del
rapporto, il ricorrente subirà l’applicazione dell’art. 12, comma 7, del
d.l. n. 78 del 2010, che prevede la rateizzazione della corrispondente
indennità, mentre fin da subito ne subisce gli effetti dannosi in
conseguenza dell’applicazione del comma 10, che dispone la sostituzione
dell’indennità di buonuscita con il meno favorevole trattamento di fine
rapporto, pur perdurando sui dipendenti pubblici la trattenuta
aggiuntiva del 2,50 sull’80% della retribuzione, in aggiunta
all’aliquota, a tutti i lavoratori dipendenti applicabile, del 6,91%
prevista dall’art. 2120 del codice civile. Sostiene, in relazione a tali
illegittimi ed incostituzionali effetti negativi, l’eccesso di potere,
l’ingiustizia manifesta e la violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41,
42, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 della Costituzione. Nel giudizio è
intervenuto ad adiuvandum, Paolo Abbritti, magistrato ordinario in
servizio presso la Procura della Repubblica di Perugia, con atto
depositato successivamente all’ordinanza di rimessione.
1.8.2.— Il rimettente assume, in primo luogo, che la
rilevanza della questione di legittimità costituzionale sarebbe di
intuitiva evidenza e discenderebbe dal fatto che le norme di cui ai
commi 2 e 22 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 trovano applicazione
dal primo gennaio del 2011, di modo che il ricorrente ha subito il
mancato incremento del 3,04% della voce stipendio (corrispondente al
secondo acconto spettante ai sensi del decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 23 giugno 2009), la riduzione dell’indennità
giudiziaria, nel corso del 2011 nella misura del 15%, e dal corrente
anno 2012 nella misura del 25%, oltre che la riduzione del trattamento
economico complessivo, del 5% una volta superati i 90.000 euro annui
lordi, e del 10% una volta superati i 150.000 euro.
Il TAR evidenzia, altresì, che la disciplina introdotta dal
d.l. n. 78 del 2010 incidente sul trattamento retributivo, non si limita
alla disposizione del comma 22, specificamente rivolta al personale di
magistratura, ma si sviluppa in via generale anche attraverso la misura
di cui al comma 2 del medesimo corpus legislativo. In particolare, la
manovra prevedrebbe che: a) per tutti i dipendenti pubblici
(appartenenti alle amministrazioni pubbliche inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione) a decorrere dal 1º
gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici
complessivi superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per
la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonchè del
10% per la parte eccedente 150.000 euro (comma 2); b) per i soli
magistrati il blocco degli acconti per gli anni 2011/2013 e dei
conguagli per il triennio 2010/2012 (comma 22, primo periodo); c) per i
soli magistrati un “tetto” per l’acconto per l’anno 2014 che non può
superare quello dell’anno 2010 ed un “tetto” per il conguaglio dell’anno
2015, che sarà determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014,
escludendo, dunque, il triennio 2011/2013 (comma 22, primo periodo); d)
per i soli magistrati la riduzione annualmente progressiva (15%, 25% e
32%), per il triennio 2011/2013, dell’indennità giudiziaria di cui alla
legge n. 27 del 1981 (comma 22, secondo periodo).
Il TAR assume che le misure di contenimento in questione
incidono significativamente sul trattamento economico dei magistrati,
alterando «l’euritmia di un sistema che prevede un meccanismo automatico
di determinazione dello stesso, regolato dalla legge ordinaria, al fine
di assicurare l’autonomia e l’indipendenza dei giudici».
1.8.3.— Ciò posto, viene censurato, in primo luogo, il
citato comma 22, per le medesime motivazioni di cui alle ordinanze TAR
Trento, 14 dicembre 2011, n. 3107; TAR Campania, Salerno, 23 giugno
2011, n. 1162; TAR Piemonte, Sez. II, 28 luglio 2011, n. 846; TAR
Veneto, Sez. I, 15 novembre 2011, n. 1685.
Il rimettente osserva che, pur non ignorando l’orientamento
di questa Corte su pregresse manovre che disponevano il blocco degli
incrementi retributivi dovuti ad automatismi stipendiali, quella
medesima giurisprudenza avrebbe consentito l’imposizione di sacrifici
eccezionali, soltanto a condizione che fossero ragionevolmente ripartiti
tra diverse categorie di cittadini, oltre transeunti e idonei allo scopo
prefisso (sentenza n. 245 del 1997 e ordinanza n. 299 del 1999).
Le disposizioni impugnate, invece, si inserirebbero in una
manovra finanziaria priva di dimensione solidaristica, che colpisce
pesantemente solamente l’impiego pubblico, senza tenere conto del fatto
che ne rimarrebbero immuni (anche a seguito del c.d. decreto
«salva-Italia» decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) «i soggetti
che con le amministrazioni pubbliche intrattengono solamente un rapporto
di servizio onorario, ovviamente tutt’altro che gratuito».
In relazione a ciò la disposizione viene censurata anche
sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza e del
principio solidaristico di cui agli artt. 3 e 2 della Costituzione,
venendo discriminati in peius i magistrati, frustrando la loro legittima
aspettativa all’ordinario sviluppo economico della carriera.
Allo stesso tempo, a giudizio del rimettente, il blocco
dell’adeguamento automatico violerebbe anche il principio di
proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro
prestato, sancito dall’art. 36 della Costituzione, determinando un
taglio lineare delle retribuzioni a fronte di un carico di lavoro che,
come noto, risulta progressivamente crescente, anche in considerazione
della mancata copertura dei posti in organico.
1.8.4.— Quanto al taglio dell’indennità giudiziaria di cui
all’art. 3 della legge n. 27 del 1981, il rimettente, ne deduce, in
primo luogo, la violazione dell’art. 36 Cost., in quanto componente
essenziale della retribuzione.
Inoltre, trattandosi di decurtazione di natura tributaria,
in quanto consistente in una prestazione imposta, consistente
nell’ablazione di somme con attribuzione delle stesse ad un ente
pubblico e nella loro destinazione allo scopo di apprestare mezzi per il
fabbisogno finanziario dell’ente stesso (secondo la definizione delle
sentenze 12 gennaio 1995, n. 11; 10 febbraio 1982, n. 26), la sua
connotazione selettiva a danno dei magistrati, determinerebbe la
violazione dell’art. 53, primo comma, Cost., che esprime il principio
della generalità delle imposte, in ragione della capacità contributiva.
Non solo, ma a giudizio del TAR per l’Umbria, vi sarebbe anche una
violazione dell’art. 53, secondo comma, Cost. trattandosi di un tributo
sostanzialmente regressivo.
1.8.5.— Il rimettente censura, altresì, l’art. 9, comma 2,
il quale, piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale
(melius, come una riduzione dei trattamenti economici), avrebbe natura
tributaria, ricorrendone i due elementi fondamentali dell’imposizione di
un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto
autoritativo di carattere ablatorio, nonché della destinazione del
gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza
pubblica.
Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53 della Costituzione,
trattandosi di prelievo di natura tributaria, peraltro
significativamente operato con progressivo raggiungimento di due
differenti scaglioni (90.000 e 150.000 euro), cui si applicano aliquote
crescenti, e colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici
(nel cui novero rientrano i magistrati), in contrasto con il principio
della “universalità della imposizione”. L’imposta sarebbe, inoltre,
discriminatoria, sia in relazione all’amplissima categoria dei
“cittadini”, rispetto alla quale i dipendenti pubblici sarebbero
discriminati ratione status a parità di capacità economica, sia in
relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”, risultando i
dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati, come
pure ai lavoratori autonomi, i quali, a parità di reddito, non subiscono
alcuna incisione patrimoniale. Tale effetto discriminatorio sarebbe reso
ancor più evidente dalla diversa disciplina riservata al contributo di
solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri
cittadini, dall’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011.
Peraltro l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011
disporrebbe espressamente che «ai fini della verifica del superamento
del limite di 300.000 euro rileva[no] anche il reddito di lavoro
dipendente di cui all’art. 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010,
n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n.
122, al lordo della riduzione ivi prevista», sicché il contributo di
solidarietà si applicherebbe anche ai redditi complessivi che hanno già
subito la decurtazione di cui all’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010,
seppure allorché raggiungano il superiore importo, senza che si
verifichi una doppia imposizione.
1.8.6.— Il rimettente censura, infine, le modifiche
apportate alla disciplina dell’indennità di buonuscita dall’art. 12 del
d.l. n. 78 del 2010.
Premette al riguardo, in primo luogo, la sussistenza della
giurisdizione in tale materia, in quanto, pur essendo l’art. 6 della
legge 20 marzo 1980, n. 75 (Proroga del termine previsto dall’art. 1
della L. 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico
del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in
quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di
riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e
di attuazione dell’art. 6 della L. 29 aprile 1976, n. 177, sul
trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei
termini per la opzione), abrogato dall’art. 4, comma 1, numero 12,
dell’allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione
dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al
governo per il riordino del processo amministrativo), la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo risulterebbe confermata dall’art.
133, comma 1, lettera i), dello stesso codice sulle «controversie
relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto
pubblico». Sarebbe, infatti, indubbia, anche secondo la Corte di
cassazione, l’inerenza della controversia sull’indennità di buonuscita
ad un diritto attinente al rapporto di pubblico impiego (in questo senso
si citano Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27304; 2 luglio 2008, n.
18038).
Nel merito, in virtù di quanto previsto dall’art. 12, comma
10, del d.l. n. 78 del 2010, «con effetto sulle anzianità contributive
maturate a decorrere dal 1° gennaio 2011», la disciplina della
buonuscita dei magistrati verrebbe ad essere assoggetta al differente
regime di cui all’art. 2120 del codice civile, concernente il
trattamento di fine rapporto.
Tale innovazione, modificando peggiorativamente il
trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici, ed in particolare
dei magistrati, renderebbe dubbia la legittimità costituzionale del
comma 7 dello stesso art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, che consente lo
scaglionamento delle corresponsione dell’indennità (fino a tre importi
annuali, a seconda dell’ammontare complessivo della prestazione), in
quanto determinerebbe una perdita patrimoniale certa, se non altro in
ragione della mancata previsione di interessi per la dilazione del
pagamento, in deroga alla disciplina delle obbligazioni pecuniarie.
In relazione a ciò, una volta intervenuta la scelta del
legislatore di prevedere un regime comune del trattamento di fine
servizio applicabile a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e
privati, sarebbe irragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo
scaglionamento dell’indennità di buonuscita, determinandosi una
violazione dell’art. 3 della Costituzione, nonché dell’art. 36,
caratterizzandosi la buonuscita come “retribuzione differita”. Siffatto
differimento, inoltre, a giudizio del rimettente avrebbe un aggiuntivo
carattere di irragionevolezza per il personale di magistratura, il cui
pensionamento è legato al compimento del settantacinquesimo anno di età,
epoca che, «naturalmente oltre che statisticamente, abbrevia le
prospettive di vita, e dunque anche di effettiva fruibilità di tale
retribuzione differita».
Infine, viene censurato il comma 10 dell’art. 12 del d.l.
n. 78 del 2010, in quanto la menzionata estensione del regime di cui
all’art. 2120 cod. civ. (ai fini del computo dei trattamenti di fine
servizio) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º
gennaio 2011, con applicazione dell’aliquota del 6,91%, avrebbe dovuto
comportare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari
al 2,50% della base contributiva della buonuscita, costituita dall’80%
dello stipendio.
A giudizio del TAR, sebbene si possa sostenere che tale
trattenuta, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per
l’indennità di buonuscita, ai sensi dell’art. 37 del decreto del
Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del
testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei
dipendenti civili e militari dello Stato), sia stata implicitamente
abrogata dalla normativa successiva, tuttavia, secondo i consueti
criteri ermeneutici, l’abrogazione tacita di una norma andrebbe dedotta
dalla diretta incompatibilità logica, ossia dalla impossibilità di
coesistenza della norma nuova con l’antica sullo stesso oggetto, per
l’assoluta contraddittorietà delle due disposizioni, ovvero per il fatto
che la nuova legge regola l’intera materia, anche se in modo non del
tutto incompatibile con la singola norma precedente, e ciò perchè la
disciplina complessiva importa il coordinarsi delle varie disposizioni
di cui essa consta in un insieme unitario, che non tollera
contaminazioni con norme logicamente ispirate a principi diversi
(vengono citate: Cons. Stato, sez. IV, 5 luglio 1995, n. 538; sez. V, 21
giugno 2007, n. 3330).
Nel caso di specie, in primo luogo, l’art. 12, comma 10,
del d.l. n. 78 del 2010 non conterrebbe una disciplina organica sulle
prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, che si
sostituisca organicamente al d.P.R. n. 1032 del 1973. In secondo luogo,
non potrebbe essere affermato, senza margine di incertezza, che tra le
norme considerate sussista una contraddizione tale da renderne
impossibile la contemporanea applicazione, o, per meglio dire, (tale
che) dall’applicazione ed osservanza della nuova legge derivi
necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (Cass.,
sez. I, 21 febbraio 2001, n. 2502; sez. lav., 1° ottobre 2002, n.
14129).
In assenza di antinomia tra le norme in esame, tale da
escludere che l’applicazione dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del
2010 consenta anche una parallela applicazione della rivalsa nei
confronti del dipendente, ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del
1973 (in tale senso peraltro si orienterebbe l’INPDAP con la circolare
n. 17 dell’8 ottobre 2010), sarebbe non manifestamente infondato il
dubbio di costituzionalità connesso all’applicazione in combinato
disposto dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 con la rivalsa
a carico del dipendente iscritto in misura pari al 2,50% della base
contributiva, per violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione,
consentendo allo Stato datore di lavoro una riduzione
dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata
con la qualità e quantità del lavoro prestato.
1.9.— Il Tribunale amministrativo regionale per la
Sardegna, sezione I, con ordinanza del 10 gennaio 2012, iscritta al reg.
ord. n. 56 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23,
36, 53, 97, 101, 104, 108 e 111 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del decreto-legge n.
78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.
Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche
situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle ordinanze di
rimessione dei TAR per il Veneto, Campania, Piemonte e Trento, e dopo
aver svolto brevi cenni sull’intervento normativo censurato dai
ricorrenti, ritiene non manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale del citato comma 22.
1.9.1.— L’ordinanza, in primo luogo, solleva questione di
legittimità costituzionale con motivazione ed in relazione a parametri
in larga parte coincidenti con quelli delle ordinanze iscritte al reg.
ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 53 e 54 del 2012, con riferimento
agli artt. 3, 23, 53, 101, primo comma, 104, 111 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU. In particolare,
si tratterebbe di un intervento in contraddizione con le guarentigie
apprestate dalla legge a tutela dell’autonomia ed indipendenza della
magistratura, funzionali a loro volta allo svolgimento imparziale ed
obbiettivo della funzione giudicante ed in definitiva di un “giusto
processo”, in adempimento degli obblighi convenzionali di cui al citato
art. 6. In quanto poi, prestazione patrimoniale imposta di natura
tributaria, sarebbero violati i principi di progressività e di
generalità che informano il sistema tributario.
1.9.2.— Il TAR rimettente, aggiunge che le disposizioni di
cui al comma 22 dell’art. 9 cit., sia nella parte in cui incidono
sull’adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati, sia in
ordine alla riduzione progressiva dell’indennità giudiziaria,
violerebbero il principio costituzionale di tutela dell’affidamento
ingenerato dai comportamenti del legislatore, del principio
costituzionale di leale collaborazione tra i poteri dello Stato, il
principio di ragionevolezza e di uguaglianza di fronte alla legge di cui
all’art. 3 Cost.
In particolare, in materia di retribuzione dei magistrati,
in assenza di una espressa disposizione costituzionale, il riferimento
principe sarebbe costituito dall’ampia riserva di legge in materia di
ordinamento giudiziario, prevista dall’art. 108, primo comma, Cost.
La tendenziale attribuzione al legislatore di tale materia
avrebbe, poi, determinato la sottrazione del trattamento economico dei
magistrati alle procedure di contrattazione collettiva o di categoria,
in ossequio al principio per cui occorre evitare che i magistrati siano
soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri
(sentenza n. 1 del 1978).
Tuttavia, il potere di iniziativa unilaterale del
legislatore in tema di trattamento economico dei magistrati, avrebbe
dovuto essere svolto nel rispetto del principio di affidamento e del
principio di leale collaborazione tra poteri costituzionalmente
rilevanti.
In tale contesto, sussisterebbe una situazione giuridica
di affidamento tutelabile dei magistrati, quantomeno nel senso della
esistenza di aspettative generate dai precedenti comportamenti del
legislatore. Il principio di tutela dell’affidamento, a sua volta,
mentre sul piano della concreta disciplina legislativa avrebbe dovuto
svolgersi mediante il ragionevole bilanciamento tra opposte esigenze
costituzionali (indipendenza ed autonomia dei giudici e compatibilità
con gli equilibri della finanza pubblica), non potrebbe non riflettersi
anche sul piano procedimentale attraverso la previsione di una idonea
fase del procedimento legislativo che preveda l’interlocuzione delle
rappresentanze dei magistrati, che corrisponderebbe alla effettiva
natura di legge-provvedimento non solo, per quanto qui rileva, dell’art.
9, comma 22, ma in generale delle disposizioni legislative che abbiano
come oggetto la concreta disciplina del trattamento economico di una
circoscritta categoria di lavoratori quali i magistrati.
La diversa soluzione adottata dal legislatore in questo
caso determinerebbe, altresì, la violazione dell’art. 3 Cost. sotto i
due profili della violazione del principio di ragionevolezza e della
violazione della parità di trattamento rispetto ad altre categorie di
lavoratori, le quali sono protette dal contratto contro eventuali
modificazioni in peius da parte dei datori di lavoro.
1.10.— Il Tribunale amministrativo regionale per la
Liguria, sezione I, con due ordinanze del 10 gennaio 2012, iscritte al
reg. ord. nn. 63 e 94 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli
articoli 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104, 108 e 111 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del
decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 122 del 2010.
Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche
situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle ordinanze di
rimessione dei TAR per il Veneto, Campania e Piemonte, e dopo aver
enunciato brevi cenni sull’intervento normativo censurato dai
ricorrenti, ritiene non manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale del citato comma 22.
Le due ordinanze sollevano questione di legittimità
costituzionale con motivazione ed in relazione a parametri in larga
parte coincidenti con quelli delle ordinanze iscritte al reg. ord. nn.
219 e 248 del 2011, nn. 11, 20, 53 e 54 del 2012, con riferimento agli
artt. 3, 23 e 53, 101, primo comma, 104, 111 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU. Si tratterebbe di un
intervento in contraddizione con i principi di autonomia ed indipendenza
della magistratura, funzionali a loro volta allo svolgimento imparziale
ed obbiettivo della funzione giudicante ed in definitiva di un “giusto
processo”. Censura avvalorata, anche per il TAR Liguria, dai principi
espressi dalla c.d. «Magna Carta dei Giudici» approvata dal CCJE, nonché
dalla coeva Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Comitato dei Ministri
agli Stati membri. Trattandosi poi, di prestazione patrimoniale imposta
di natura tributaria, sarebbero violati i principi di progressività e di
generalità.
Anche in questo caso, i rimettenti sottolineano la ratio
punitiva delle misure in contestazione e ne evocano l’intrinseca
irragionevolezza, anche in considerazione del fatto che la recente
riforma organica della magistratura realizzata nel 2006, ha disposto che
alle periodiche valutazioni di professionalità possa conseguire in
ipotesi di apprezzamento negativo la perdita del diritto all’aumento
periodico di stipendio per un biennio. In tale contesto il blocco
indiscriminato nei confronti di tutti gli appartenenti alla magistratura
realizzerebbe, a giudizio del TAR, l’effetto di una valutazione negativa
di professionalità globale e complessiva, in spregio ai più fondamentali
canoni dell’agire legislativo, rendendo manifesto «l’attentato ai valori
di indipendenza della magistratura». Del resto, l’intento punitivo
sarebbe avvalorato dall’art. 16, comma 7, del d.l. n. 98 del 2011,
richiamato anche nelle altre ordinanze.
In definitiva, i rimettenti, con motivazioni coincidenti
con le ordinanze n. 20 e n. 56 del 2012, assumono che le norme censurate
avrebbero operato una compressione dei valori costituzionalmente
garantiti dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura in una
maniera del tutto irrazionale, sproporzionata e discriminatoria, con
particolare riferimento ai profili della disparità di trattamento, della
irrazionalità “quantitativa” del taglio, irrazionalità “interna” alle
misure, alterazione del rapporto di proporzionalità tra prestazione e
retribuzione.
1.11.— Il Tribunale amministrativo regionale per la
Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 1°
febbraio 2012, iscritta al reg. ord. n. 74 del 2012, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103,
104, 108, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 9, commi 2, 21, primo periodo, 22, primo,
secondo e terzo periodo, nonché dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge
n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del
2010.
Il rimettente premette che i ricorrenti, tutti magistrati
amministrativi, si dolgono delle illegittime decurtazioni del
trattamento retributivo previste dal d.l. n. 78 del 2010, in particolare
dall’art. 9, commi 2, 21, 22 e dall’art. 12, comma 7, in relazione alle
differenti anzianità di servizio.
1.11.1.— Seguendo l’ordine di prospettazione delle parti,
il TAR per la Calabria, dubita della legittimità costituzionale, in
primo luogo, dell’art. 9, comma 2, secondo cui i trattamenti economici
ivi indicati, sono ridotti del 5% per la parte eccedente i 90.000 euro
lordi e del 10%, per la parte eccedente i 150.000 euro.
In via principale, il rimettente sostiene che, attesa la
natura tributaria della norma, sarebbero violati gli artt. 2, 3 e 53
Cost., con particolare riferimento ai principi di proporzionalità e
progressività dell’imposizione.
Ciò posto, ed affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo sulla domanda inerente le decurtazioni del trattamento
economico aventi natura tributaria, ai sensi dell’art. 133, lettera i),
del codice del processo amministrativo, il rimettente assume, in primo
luogo, che il prelievo sarebbe disposto esclusivamente in danno di una
ben definita categoria socio-economica, i lavoratori dipendenti del
settore pubblico, ivi inclusi i magistrati, laddove, utilizzando il
termine “tutti”, la disposizione costituzionale individuerebbe tutta la
platea dei contribuenti da assoggettare al prelievo fiscale. Non
varrebbe osservare, in contrario, che i magistrati e/o i dipendenti
pubblici sarebbero titolari di cespiti economici adeguati al prelievo,
in quanto in possesso di una condizione lavorativa connotata da
“stabilità”, trattandosi di un argomento politico o comunque ideologico,
ma non certamente giuridico. Inoltre, anche all’interno della medesima
categoria dei magistrati, la norma conterrebbe aspetti sperequativi e
regressivi, perché, prescinderebbe dalla considerazione dell’eventuale
sussistenza di ulteriori proventi.
1.11.2.— In via subordinata, prosegue il rimettente, anche
non riconoscendo alla norma natura tributaria (soluzione questa
preferita dal collegio), sussisterebbero comunque i menzionati profili
di illegittimità costituzionale.
La disposizione, infatti, rideterminando, in senso
ablativo, un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico
dipendente come diritto soggettivo, inciderebbe sullo status economico
dei lavoratori (anche appartenenti alla magistratura) alterando quel
sinallagma che è il proprium dei rapporti di durata ed in particolare
proprio dei rapporti di lavoro. Sebbene, infatti non sia interdetto al
legislatore di emanare disposizioni atte a modificare in senso
sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata, queste non potrebbero
trasmodare in un regolamento irrazionale (Corte costituzionale, sentenza
n. 446 del 2002; ordinanza n. 327 del 2001; sentenze n. 282 e n. 264 del
2005, n. 393 del 2000, n. 416 del 1999), in violazione, non solo
dell’art. 3, ma anche dell’art. 2 e 36 della Costituzione. Ciò, in
quanto la novazione oggettiva ed unilaterale del rapporto di lavoro,
realizzata dal d.l. n. 78 del 2010, oltre a tradursi nel grave
scardinamento del principio costituzionale di proporzionalità e
adeguatezza della retribuzione, sacrificherebbe la stessa dignità
sociale della persona-lavoratore, che si trova soggetto, senza
possibilità di difesa, ad aggressioni patrimoniali arbitrarie non solo
nelle modalità del prelievo, ma nello stesso presupposto, perché a
determinarlo è lo stesso soggetto (Stato) che opera il prelievo,
avvalendosi della forza derivante dall’essere ad un tempo datore di
lavoro e legislatore.
1.11.3.— Inoltre, ancora nel caso in cui non si
riconoscesse alla norma natura tributaria, secondo il rimettente la
disposizione violerebbe gli artt. 42 e 97 Cost., per lesione dei
principi costituzionali in materia di ablazione reale e dei principi di
buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione.
Se la norma non avesse una natura tributaria, sarebbe
incontestabile la sua natura sostanzialmente espropriativa, dal momento
che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti
oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità. In tal senso,
infatti, non potrebbe dubitarsi del fatto che il fenomeno espropriativo
possa astrattamente colpire anche beni mobili fungibili, quali il denaro
(nella specie, gli stipendi pubblici), sicchè si tratterebbe altresì di
una norma-provvedimento, con conseguente violazione dell’art. 97 Cost.,
avendo tale norma mutuato la natura del provvedimento, elidendone la
fase del procedimento, deputata, fra l’altro alla partecipazione degli
interessati, al fine di interloquire sulla legittimità e
sull’opportunità delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il
loro sacrificio.
1.11.4.— Sotto ulteriore profilo, poi, il TAR per la
Calabria, deduce la violazione degli artt. 2 e 3 Cost.,
indipendentemente dalla natura tributaria o non tributaria della norma,
in quanto l’aver attribuito la parte predominante dello sforzo
“contributivo” ad una minore retribuzione dei dipendenti pubblici, e tra
essi dei magistrati, introdurrebbe “forti discriminazioni”, per le
seguenti ragioni: il prelievo riguarderebbe ingiustificatamente una
categoria di sicura “tassabilità”, trascurando del tutto di colpire le
ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben
conosciute, soltanto perché misura più spendibile con l’opinione
pubblica e perché comodamente qualificabile come “riduzione di spesa”.
In questo senso il rimettente sottolinea, altresì, che sarebbe
consentito al legislatore stabilire una diminuzione delle retribuzioni
dei magistrati, ma attraverso uno strumento specifico destinato a
novellare organicamente e razionalmente l’intera disciplina di settore,
regolando “a monte” la modalità ed i presupposti, con appositi moduli di
procedura da osservarsi per il caso di eventi eccezionali, che impongano
il coinvolgimento della categoria nello sforzo collettivo di risanamento
dei conti pubblici.
La dedotta discriminazione peraltro contrasterebbe anche
con “orientamenti di matrice comunitaria” (recte europea), con riguardo
al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella «Raccomandazione
CM/Rec (2010)».
L’irragionevolezza dell’intervento, ancora sarebbe
evidenziata anche dal fatto che sull’importo “tagliato” del 5% o del 10%
sarebbe applicata la ritenuta previdenziale (ex Circolare n. 12 del 15
aprile 2011), sicchè l’importo così risultante, si riverbererebbe
interamente sulla retribuzione netta, diminuendone l’ammontare, con
conseguenze assurde ed inopinate, poichè prescriverebbe un prelievo
contributivo applicato ad una retribuzione meramente “figurativa” e non
reale.
1.11.5.— Il rimettente ritiene, altresì, che, mediante uno
strumento che formalmente incide (solo) sulla retribuzione dei
magistrati, verrebbe ad operare un indebito condizionamento
dell’esercizio della funzione giurisdizionale, poichè si costringerebbe
l’ordine di appartenenza ad un confronto con i pubblici poteri al fine
di ripristinare le condizioni economiche originarie, o quantomeno di
elidere o attenuare le conseguenze negative della misura disposta in
violazione dei valori dell’autonomia e dell’indipendenza della
magistratura da ogni altro potere dello Stato, in particolare con
riferimento ai magistrati amministrativi, di cui la Costituzione delinea
l’attività di consulenza giuridico-amministrativa (spettante in via
esclusiva al Consiglio di Stato), e di «tutela della giustizia
nell’amministrazione».
1.11.6.— Con riguardo ai commi 21 e 22 dell’art. 9 il TAR
ne deduce la violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 53, 97, 100, 101, 108,
111 e 113 Cost., con motivazioni in larga parte coincidenti con quelle
sottese alle ordinanze di rimessione iscritte al reg. ord. nn. 219 e 248
del 2011, nn. 11, 53, 54 e 63 del 2012.
Quanto in particolare all’indennità giudiziaria, sarebbe
evidente l’irrazionalità derivante dalla previsione di un progressivo
accrescimento nel tempo del taglio in questione. Sebbene una simile
progressione possa spiegarsi con la necessità di tener conto delle
promozioni nel triennio, anche tale giustificazione, non presente nella
legge, sarebbe del tutto illogica ed incoerente con il sistema.
Nello stesso senso, il ricorrente, conclude che neppure la
motivazione della “crisi economica” sia adeguata a spiegare la ratio dei
tagli crescenti, in quanto la norma dovrebbe consentire un risparmio
immediato con progressiva mitigazione/riduzione del “taglio” fino a
quando la crisi verrà superata. Del resto, anche a ritenere che
l’invocazione della “crisi” costituisca l’effettiva motivazione della
manovra non dovrebbe trascurarsi la “diversa sensibilità maturata in
ambito europeo”, nell’ambito della quale andrebbe collocata la sentenza
del 24 novembre 2010 della Corte di giustizia UE (C-40/10), la quale ha
annullato le disposizioni del regolamento 1296/2009 UE, che avevano
ridotto l’adeguamento automatico annuale al costo della vita degli
stipendi dei funzionari UE, abbattendolo dal 3,7% all’1,85%, ritenendo
che la pur nota situazione di crisi economica non potesse essere posta a
fondamento di poteri “eccezionali” del Consiglio.
Il TAR ripropone, poi, anche con riferimento ai commi 21 e
22, le censure già esposte in riferimento all’art. 9, comma 2,
specificando con riferimento alla violazione dell’art. 36 Cost. che, nel
caso della magistratura amministrativa la falcidia della retribuzione
assumerebbe specifici aspetti paradossali, poiché la norma che dispone
il taglio delle retribuzioni si colloca in un contesto di progressivo
aumento del carico di lavoro richiesto dallo Stato datore di lavoro ai
magistrati dei TAR e del Consiglio di Stato (con riguardo alle
innovazioni introdotte dal codice del processo amministrativo).
1.11.7.— Infine, con riferimento al comma 7 dell’art. 12
(«Interventi in materia previdenziale») il rimettente premette che la
rilevanza della questione consisterebbe nel fatto che i ricorrenti
subiranno con certezza assoluta l’applicazione delle disposizioni in
argomento al momento della cessazione del rapporto, comunque ed in
qualunque tempo essa avvenga.
A giudizio del TAR, disponendosi uno scaglionamento – in
favore del solo datore di lavoro pubblico – dell’onere di corresponsione
delle indennità, comunque denominate, di fine rapporto, si
determinerebbe una diminuzione patrimoniale certa con la mancata
corresponsione di interessi per la dilazione del pagamento ed una
“profonda compromissione del rapporto”, in ragione della natura
retributiva, sia pure differita di tali indennità.
In punto di non manifesta infondatezza, poi, vengono
invocati gli artt. 2, 3, 24, 36, 53, 97, 101, 104, 104, 108, 111 e 113
Cost., per le medesime motivazioni afferenti all’art. 9, comma 2.
1.12.— Il Tribunale amministrativo regionale per la
Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 1°
febbraio 2012, iscritta al reg. ord. n. 75 del 2012, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 103,
104, 108, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, commi 21 e 22 del decreto-legge n. 78 del
2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.
Il rimettente premette che i ricorrenti, tutti magistrati
ordinari, si dolgono delle illegittime decurtazioni del trattamento
retributivo previste dal d.l. n. 78 del 2010, in particolare dall’art.
9, commi 21 e 22. Premette altresì che nella udienza è stata sollevata
analoga questione, precisando che nel procedimento de quo la questione
di legittimità sollevata concerne esclusivamente i commi 21 e 22 del
citato art. 9.
1.13. — Il Tribunale amministrativo regionale per
l’Emilia-Romagna, sezione di Parma, con ordinanza del 22 febbraio 2012,
iscritta al reg. ord. n. 76 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli
articoli 2, 3, 23, 36, 53, 97, 101, 104 e 108 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 21 e 22,
del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 122 del 2010.
Il rimettente premette di trovarsi nelle identiche
situazioni in fatto ed in diritto che hanno dato luogo alle altre
ordinanze di rimessione, essendo investito da ricorsi proposti da
magistrati ordinari.
Ciò posto, il giudice a quo ripercorre sinteticamente le
motivazioni in larga parte sottese alle altre ordinanze di rimessione,
assumendo che le descritte misure, incidenti sugli automatismi e
sull’indennità, violerebbero, realizzando un intervento discriminatorio,
il principio di autonomia ed indipendenza della magistratura,
determinando una ingiustificata assimilazione di situazioni diseguali,
ponendosi altresì in contrasto con i principi di capacità contributiva e
di progressività di cui all’art. 53 Cost.
1.14.— Il Tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, sezione quarta, con ordinanza dell’11 gennaio 2012, iscritta
al reg. ord. n. 81 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli
2, 3, 36, 101 e 104 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 9, commi 21 e 22, del decreto-legge n. 78
del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010.
Il giudice a quo colloca l’intervento in parola
nell’ambito della necessità di adeguare le retribuzioni dei magistrati
al deterioramento della situazione economica nazionale in modo più
veloce rispetto alla riduzione che si avrebbe in via riflessa, come
conseguenza del blocco delle retribuzioni del pubblico impiego
(interventi analoghi sarebbero previsti anche dalla normativa
comunitaria: Corte di giustizia, terza sezione, 24 novembre 2010, in
causa C-40/10).
Ricorda ancora il TAR lombardo come la giurisprudenza
costituzionale abbia affermato che norme di tale natura possono
ritenersi non lesive del principio di cui all’art. 3 della Costituzione
solo a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali,
transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso. Pertanto,
in punto di non manifesta infondatezza della questione, il rimettente
procede, in primo luogo, ad un confronto con il trattamento riservato
alla dirigenza pubblica privatizzata a parità di condizioni economiche e
sociali, al fine di verificare la non arbitrarietà dell’intervento nei
confronti dei magistrati, sotto forma di irrazionale riparto dei
sacrifici fra categorie di cittadini.
L’esito di tale raffronto induce il giudice a quo a
ritenere che mentre il personale di magistratura sarebbe soggetto ad una
riduzione complessiva delle retribuzioni, l’impiego pubblico
privatizzato sarebbe soggetto solo ad un blocco “temperato” delle
dinamiche retributive, con conseguente arbitrarietà ed irrazionalità del
riparto dei sacrifici tra categorie diverse di cittadini, oltre che in
violazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.
Quanto, poi, alla decurtazione dell’indennità giudiziaria, in quanto
prelievo di natura tributaria, violerebbe l’art. 53 della Costituzione,
poiché non collegata alla capacità contributiva, trattandosi di
indennità compensativa di spese strumentali.
In particolare, con riferimento al “tetto” per l’acconto
dell’adeguamento per l’anno 2014 (che non può superare quello dell’anno
2010) ed al “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, che sarà
determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo
pertanto il triennio 2011-2013, il rimettente rileva che mediante questa
disposizione i meccanismi di adeguamento retributivo riprenderebbero a
decorrere come se il tempo non fosse decorso, determinando un effetto
irreversibile. Tale intervento supererebbe i limiti temporali
dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore nel triennio
2011-2013, con violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione. Sotto
ulteriore profilo poi la previsione di effetti permanenti del blocco
dell’adeguamento retributivo trasformerebbe l’intervento eccezionale in
una vera e propria deroga al meccanismo medesimo, che violerebbe l’art.
36 della Costituzione.
2.— Nei giudizi di cui alle ordinanze iscritte al reg.
ord. nn. 219, 248 del 2011 e 20 del 2012, con identici atti, è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo nel
merito per l’infondatezza della questione.
L’Avvocatura dello Stato osserva, in primo luogo ed in via
generale, che le misure contenute nella manovra economica 2010 sarebbero
state necessitate dall’eccezionalità della situazione economica
internazionale e dall’esigenza prioritaria del raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea. In particolare
l’intervento sul settore del pubblico impiego, avrebbe anticipato quanto
successivamente espressamente chiesto con la lettera, in data 5 agosto
2011, della Banca centrale europea (BCE), a firma congiunta di Mario
Draghi (Presidente designato) e di Jean-Claude Trichet (Presidente in
carica), con la quale sarebbe stato esplicitamente indicato di «valutare
una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, (...) se
necessario, riducendo gli stipendi». In tale contesto, l’intervento
avrebbe dovuto necessariamente investire anche il personale di
magistratura, attraverso misure che attengono direttamente al rapporto
d’impiego e non all’esercizio delle funzioni istituzionali.
Il Presidente del Consiglio ricorda, poi, come
l’intervento di finanza pubblica in questione non appaia dissimile dalla
manovra del 1993 (art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 –
Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico
impiego, nonché disposizioni fiscali –, convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 novembre 1992, n. 438), rispetto alla quale la Corte
costituzionale aveva dichiarato analoghe questioni manifestamente
infondate (ordinanza n. 299 del 1999), in quanto non lesive.
Quanto alla decurtazione dell’indennità giudiziaria, la
cui natura “componente del normale trattamento economico” sarebbe già
stata affermata dalla Corte (sentenza n. 238 del 1990), la difesa dello
Stato osserva che la sua introduzione sarebbe correlata al fatto che per
il solo personale di magistratura, risulterebbero salvaguardati sia gli
automatismi stipendiali sia gli effetti economici delle promozioni.
L’affermazione secondo cui tale riduzione della speciale
indennità sarebbe una prestazione patrimoniale “di natura
sostanzialmente tributaria” non sarebbe corretta, giacchè tutte le
misure previste dal citato art. 9 sarebbero finalizzate a conseguire
soltanto una riduzione di spesa di tutti gli apparati in cui si articola
la pubblica amministrazione. Tale assunto sarebbe del resto confermato
dal fatto che tale riduzione non opera ai fini previdenziali.
Inoltre, in relazione all’eccepita disparità di
trattamento fra i magistrati, poiché colpiti tutti senza distinzione
nello stesso ammontare, la tesi sarebbe smentita in relazione al fatto
che i magistrati con retribuzioni meno elevate non subirebbero la misura
della decurtazione percentuale prevista dal comma 2 del medesimo art. 9.
Quanto, invece, alla mancata erogazione per il triennio
2011-2013 dei miglioramenti economici previsti dalla legge n. 27 del
1981, in materia di adeguamento di diritto del trattamento economico,
erroneamente definita come “decurtazione” e non, invece, come mancata
crescita retributiva, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva
che la disposizione contestata si sarebbe limitata a prevedere che, a
fronte del blocco triennale della contrattazione economica del pubblico
impiego, altrettanto dovesse avvenire anche per la categoria dei
magistrati.
2.1.— Nei giudizi di cui alle ordinanze iscritte al reg.
ord. nn. 46, 53, 54, 56, 63, 74 e 75 del 2012, il Presidente del
Consiglio dei ministri è intervenuto, ripercorrendo pedissequamente le
osservazioni già sintetizzate. Ha, inoltre, osservato, quanto alla
violazione dell’art. 36, Cost., che andrebbe considerata la retribuzione
nel suo complesso e non le singole sue componenti, tanto più che
l’origine storica della speciale indennità sarebbe del tutto superata,
avendone la Corte costituzionale riconosciuto la sua natura retributiva,
onnicomprensiva. L’intervento in questione sarebbe poi stato imposto
dalla necessità di compensare la mancata adozione del blocco degli
automatismi stipendiali e delle progressioni di carriera previsto per
altre categorie personale.
Infine, l’Avvocatura dello Stato osserva, quanto alla
questione concernente il comma 2 del citato art. 9, che si tratterebbe
di mera riduzione di spesa imposta dalla necessità di raggiungere gli
obbiettivi di finanza pubblica prefissi, per fronteggiare
l’eccezionalità della situazione economica internazionale, come sarebbe
dimostrato dal fatto che tale riduzione non opererebbe ai fini
previdenziali. Di conseguenza dovrebbe essere esclusa la natura
tributaria della medesima.
Con specifico riferimento all’ordinanza iscritta al reg.
ord. n. 54 del 2012 ed alla norma contenuta nell’art. 12, comma 10,
l’Avvocatura generale dello Stato assume, quanto all’illegittimità del
prelievo del 2,50% sull’80% della retribuzione, che la disciplina
innovata non avrebbe modificato la natura dell’indennità di buonuscita.
Il legislatore, già in passato (come nel caso della legge 8 agosto 1995
n. 335) avrebbe disciplinato il passaggio dal sistema di TFS a quello di
TFR, stabilendo che la retribuzione del personale in TFR fosse ridotta
di una ritenuta figurativa pari al contributo ex opera di previdenza.
Conseguentemente, da una lettura sistematica delle norme vigenti, non
deriverebbe il denunciato contrasto (come confermato dalla circolare
INPDAP n. 17 del 2010 e dal parere del 21 dicembre 2011 del Dipartimento
della Ragioneria dello Stato).
Nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 11 e 12 del 2012,
non risulta intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
3.— In tutti i giudizi si sono costituite le parti
private, chiedendo la riunione con le altre ordinanze sollevate da altre
autorità giudiziarie e riservandosi ogni più ampia successiva deduzione.
Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012 è
intervenuto Paolo Abbritti, interventore ad adiuvandum nel giudizio a
quo, con atto depositato presso il TAR rimettente successivamente alla
pronuncia dell’ordinanza di rimessione, chiedendo l’accoglimento della
questione di legittimità costituzionale sollevata ed, altresì, di
«dichiarare l’illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 27 Cost.
dell’art. 16 (comma 1, lettera b) e comma 7, del D.L. 6 luglio 2011, n.
98, convertito con L. 15 luglio 2011, n. 111, per contrasto con gli
artt. 3, 101, 104 e 118 Cost.»
4.— In prossimità dell’udienza del 6 marzo 2012, fissata
per la trattazione delle ordinanze reg. ord. nn. 219 e 248, prima del
disposto rinvio a nuovo ruolo, l’Avvocatura dello Stato ha presentato
ulteriore memoria, ribadendo le argomentazioni svolte in relazione a
quei procedimenti e ricordando che analogo ricorso proposto innanzi al
TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, è stato respinto con
sentenza n. 1671/2011, in data 16 novembre 2011, depositata in data 28
novembre 2011.
A giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri,
inoltre, le misure censurate atterrebbero direttamente al rapporto
d’impiego e non all’esercizio delle funzioni istituzionali, con
particolare riferimento al comma 22 dell’art. 9, che avrebbe determinato
in concreto effetti significativamente meno incisivi rispetto
all’intervento previsto per il restante personale in regime
pubblicistico.
Viene, altresì, richiamata la circolare della Ragioneria
generale dello Stato n. 12 del 15 aprile 2011, registrata alla Corte dei
conti il 16 giugno 2011, quanto al bilanciamento fra gli automatismi
stipendiali determinati da classi e scatti e la riduzione della speciale
indennità di cui fruisce la categoria dei magistrati.
Con riferimento, poi, alla c.d. Magna Carta dei Giudici,
l’Avvocatura ribadisce che essa non assumerebbe rilievo determinante,
essendo priva ex se di valore cogente e, con riguardo agli artt. 23 e 53
della Costituzione, si ribadisce che l’intervento non avrebbe natura
tributaria.
Inoltre, non sussisterebbe neppure una violazione
dell’art. 36 Cost., in quanto, indipendentemente dalla natura
“retributiva” o meno della indennità c.d. giudiziaria, quest’ultima
costituirebbe parte integrante – perché componente fissa e continuativa
–del trattamento economico, che andrebbe valutato nel suo complesso,
quanto alla proporzionalità ed adeguatezza, tenuto conto peraltro, che
«l’applicazione delle disposizioni di contenimento previste per il
personale di magistratura, non impedisce l’evoluzione della relativa
dinamica retributiva (classi e progressioni di carriera), salvaguardi
gli effetti previdenziali delle riduzioni di cui ai commi 2 e 22
dell’articolo 9 (come già precisato sopra al punto 4) e si concretizzi
(...) in misure di portata più limitata rispetto a quelle previste per
altre categorie, per le quali gli interventi stabiliti dal comma 21
dello stesso art. 9 hanno effetti più incisivi e di carattere
strutturale» (relazione della Ragioneria generale dello Stato).
Neppure, secondo l’Avvocatura, il blocco degli incrementi
per un triennio dovuto all’esclusione di erogazione degli incrementi
nascenti dal sistema di automatico adeguamento stipendiale violerebbe
l’art. 36 Cost.: da un lato, perché esso non determinerebbe riduzioni
stipendiali, ma solo esclusione di incrementi stipendiali; dall’altro,
perché si tratterebbe di misura eccezionale, transeunte, consentanea a
uno scopo e a una situazione che la rendono non arbitraria, ma
ragionevole e rispondente al principio di solidarietà di cui all’art. 2
della Costituzione.
Da ultimo, in riferimento alla violazione dell’art. 97
Cost., si esclude che tale parametro possa riferirsi anche all’esercizio
dell’attività giurisdizionale.
5.— In prossimità dell’udienza del 6 marzo 2012, fissata
per la trattazione delle ordinanze r.o. nn. 219 e 248, prima del
disposto rinvio a nuovo ruolo, anche le parti ricorrenti hanno prodotto
ulteriori memorie, ribadendo nel complesso le argomentazioni sottese
agli atti introduttivi dei giudizi ed alle ordinanze di rimessione.
In particolare, viene contestata la tesi difensiva
dell’Avvocatura, secondo cui la decurtazione dell’indennità speciale
avrebbe la sola funzione di ristabilire l’eguaglianza tra il trattamento
economico dei magistrati e quello delle altre categorie di personale
“non contrattualizzato”, limitandosi a “compensare” i “vantaggi”
derivanti, dalla mancata applicazione ai magistrati del “blocco” delle
progressioni stipendiali “automatiche” (“classi” e “scatti” di
stipendio) e degli effetti economici delle “progressioni di carriera”
previsto, per tutte le altre categorie di personale “non
contrattualizzato”, dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010.
L’argomento sarebbe, infatti, infondato: il mancato blocco
degli “automatismi stipendiali” non rappresenterebbe affatto un
particolare trattamento di favore riservato ai magistrati, ma la
conseguenza del fatto che, solo per tale categoria, le progressioni
stipendiali “automatiche” non esisterebbero più.
A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 11 del decreto
legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in
magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni
dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della
legge 25 luglio 2005, n. 150), infatti, la progressione stipendiale dei
magistrati non sarebbe più automatica, ma legata agli esiti delle
valutazioni periodiche di professionalità, effettuate dal CSM su parere
del Consiglio giudiziario, e che hanno ad oggetto la capacità, la
laboriosità, la diligenza e l’impegno dimostrati dal magistrato
nell’esercizio delle sue funzioni: l’eventuale esito negativo della
valutazione “comporta la perdita del diritto all’aumento periodico di
stipendio per un biennio” (art. 11, comma 12, del d.lgs n. 160 del
2006).
Dovrebbe poi escludersi che la decurtazione dell’indennità
possa essere giustificata con l’esigenza di compensare il fatto che i
magistrati, a differenza delle altre categorie di personale “non
contrattualizzato”, sarebbero esenti dal blocco degli effetti economici
delle “progressioni di carriera”. Della esenzione dal blocco degli
effetti economici delle progressioni di carriera non si gioverebbero,
infatti, tutti i magistrati, ma solamente coloro che, nel triennio
2011-2013, dovessero conseguire una simile progressione: ossia alla
stregua dei dati forniti dall’Amministrazione, solo una esigua minoranza
(circa il 20% – poco più di 700 per anno, nel triennio) del totale dei
magistrati attualmente in servizio.
Sicché, nel corso del periodo di riferimento, la maggior
parte dei magistrati, nel corso del triennio 2011-2013, vedrebbe ridursi
il proprio trattamento economico complessivo.
Le parti ribadiscono, poi, che i meccanismi normativi che
assistono le retribuzioni dei magistrati sarebbero tesi alla «attuazione
del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va
salvaguardato anche sotto il profilo economico» (sentenza n. 1 del
1978), «evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche
rivendicazioni nei confronti di altri poteri» (sentenza n. 42 del 1993)
e concretizzando «una guarentigia idonea a tale scopo» (sentenza n. 238
del 1990).
Quanto, poi all’indennità giudiziaria, si sostiene che
essa sarebbe entrata a far parte in via ordinaria e normale del
trattamento economico ad un titolo appunto “speciale” poiché diretta a
consentire di far fronte «agli oneri che gli stessi incontrano nello
svolgimento della loro attività», imparziale, indipendente e con
«impegno senza precisi limiti temporali» (si citano le sentenze n. 479
del 2000, n. 238 del 1990 e n. 57 del 1990; nonché Cass. civ., sez.
lav., 16 febbraio 2002, n. 2287).
La decurtazione operata, quindi, farebbe irragionevolmente
gravare sui magistrati “oneri” specifici dell’organizzazione del loro
lavoro, determinando anche la violazione degli artt. 23 e 53 Cost., in
quanto non colpirebbe un “sintomo di arricchimento”, ossia un elemento
di potenziamento della sfera economica, ma il mero recupero di “oneri”
che il magistrato incontra nello svolgimento delle proprie funzioni.
6.— Il 12 giugno 2012 il Presidente del Consiglio dei
ministri ha depositato atto di intervento nel giudizio iscritto al reg.
ord. n. 94 del 2012, riproponendo pedissequamente le argomentazioni a
sostegno dell’infondatezza, già sintetizzate con riferimento agli altri
atti di intervento.
6.1.— In prossimità dell’udienza del 3 luglio 2012
l’Avvocatura dello Stato ha depositato ulteriori memorie, con
riferimento ai giudizi iscritti ai nn. 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 76
del reg. ord. 2012.
In tali atti, sostanzialmente identici, vengono ribadite
le argomentazioni già spese a sostegno dell’infondatezza delle
questioni.
In aggiunta alle già sintetizzate argomentazioni,
l’Avvocatura dello Stato si sofferma anche sulle censure riguardanti
l’art. 12, commi 7 e 10.
In particolare, quanto alla trattenuta del 2,50%, si
evidenzia, richiamando la circolare INPS n. 17/2010, come la nuova
disciplina non abbia mutato la natura del trattamento di fine servizio
e, si sostiene che analogamente a quanto avvenuto nel passato, il
complesso normativo risultante ha stabilito che la retribuzione del
personale assoggettato a TFR sia ridotta “di una ritenuta figurativa
pari al contributo ex opera previdenza”. Conclusivamente, dunque, il
prelievo del 2,50% avrebbe natura di contributo solidaristico a favore
dell’istituto previdenziale, che il legislatore avrebbe voluto
mantenere. Del resto, osserva il Presidente del Consiglio dei ministri,
la stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto la legittimità
costituzionale di una simile disciplina, con riferimento ai lavoratori
dipendenti della società Poste s.p.a., con la sentenza n. 259 del 2002.
In conclusione, l’Avvocatura, ribadisce che tutti gli
interventi normativi censurati sarebbero giustificati dall’eccezionalità
della situazione economica da affrontare e limitati nel tempo.
6.2.— In pari data, anche le parti private del giudizio
hanno depositato memorie, in prossimità dell’udienza del 3 luglio 2012,
ribadendo complessivamente le argomentazioni sottese alle ordinanze di
rimessione. In aggiunta, si contesta che la riduzione dell’indennità
speciale sia connessa in qualche modo al mantenimento del meccanismo
automatico di progressione per classi e scatti. Tale assunto
dell’Avvocatura sarebbe, infatti, smentito dal fatto che a seguito
dell’art. 11 del d.lgs n. 160 del 2006 tale progressione non sarebbe
affatto automatica, quanto piuttosto legata al procedere positivo delle
valutazioni quadriennali di professionalità.
Considerato in diritto
1.— Sono sottoposte all’esame della Corte 15 ordinanze di
rimessione (reg. ord. n. 219, 248 del 2011; 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56,
63, 74, 75, 76, 81 e 94 del 2012), con le quali i TAR per la Campania,
Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Trento, Umbria, Sardegna, Liguria,
Calabria, Emilia-Romagna e Lombardia hanno sollevato questioni di
legittimità costituzionale: dell’articolo 9, commi 22 (tutte le
ordinanze – alcune di esse indicando anche il comma 21), nonché del
comma 2 (le sole ordinanze r.o. n. 46, 53, 54, 73, 74 e 75 del 2012);
dell’articolo 12, comma 7 (le ordinanze r.o. nn. 54 e 74 del 2012);
dell’articolo 12, comma 10 (la sola ordinanza r.o. n. 54 del 2012) del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito,
con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento
agli artt. 2, 3, 23, 24, 36, 42, 53, 97, 100, 101, 104, 108, 111, 113 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art.
6 CEDU.
1.1.— Le questioni hanno ad oggetto, in parte, le stesse
norme, censurate con argomentazioni in larga misura coincidenti, e,
quindi, va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica
trattazione e di un’unica pronuncia.
2.— Tutte le ordinanze in esame, emesse nel corso di giudizi
proposti da magistrati ordinari, contabili ed amministrativi, censurano,
sotto diversi profili, l’art. 9, comma 22, del decreto-legge
summenzionato (quelle iscritte al reg. ord. nn. 12, 53, 74 e 75 del 2012
in combinato con il comma 21); alcune di esse censurano anche il comma 2
dell’art. 9; le ordinanze nn. 54 e 74 del 2012 hanno ad oggetto anche
l’art. 12, comma 7; infine, la sola ordinanza n. 54 dubita della
legittimità costituzionale anche del comma 10 del medesimo articolo 12.
2.1.— I rimettenti premettono che la disciplina censurata si
ricaverebbe dal complesso normativo dei commi 21 e 22 del d.l. n. 78 del
2010, in quanto per i magistrati, così come per tutte le altre categorie
del personale non contrattualizzato, verrebbe introdotto un “blocco” dei
“meccanismi di adeguamento retributivo” previsto dal primo periodo del
comma 21, la cui operatività sarebbe estesa sia a livello di acconto che
a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo) dal primo
periodo dell’art. 22. Inoltre, ai soli magistrati verrebbe operata una
riduzione crescente nel tempo dell’indennità giudiziaria e verrebbero
introdotti, sempre in forza dell’art. 22, “tetti” all’acconto per l’anno
2014.
In relazione a tale disciplina, vengono, in primo luogo,
sollevate questioni di legittimità costituzionale relative al
complessivo intervento riguardante sia il cosiddetto “blocco degli
adeguamenti”, sia la riduzione della speciale indennità di cui
all’articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il
personale di magistratura).
In particolare, le ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 219 e
248 del 2011, nn. 11, 46, 53, 54, 56, 63, 76, 81 e 94 del 2012, assumono
che la disciplina in questione contrasterebbe con l’art. 104, primo
comma, della Costituzione, in quanto, rappresentando il c.d. adeguamento
automatico un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei
magistrati, diretto alla «attuazione del precetto costituzionale
dell’indipendenza», la misura adottata violerebbe il principio in virtù
del quale il trattamento economico dei magistrati non sarebbe «nella
libera disponibilità del potere legislativo» e dovrebbe non soltanto
essere «adeguato» alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art.
36 della Costituzione), ma anche va «certo e costante, e in generale non
soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)».
Tale disciplina contrasterebbe, altresì, con gli artt. 3,
100, 101, 104 e 108, della Costituzione, in quanto realizzerebbe una
irragionevole decurtazione del trattamento retributivo dei magistrati,
il quale è caratterizzato da un automatismo legale, che si pone «come
guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell’autonomia
ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche
sul piano economico», con la conseguenza che una simile manovra
obbligherebbe il magistrato (come singolo o come Ordine) a
rivendicazioni economiche verso i pubblici poteri.
Viene, inoltre, evocata (ordinanze r.o. nn. 54, 63 e 94 del
2012) la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., in quanto tali misure,
intrinsecamente irragionevoli, sarebbero inserite in una manovra priva
di dimensione solidaristica.
3.— A tutte queste censure che, come detto, riguardano il
comma 22 complessivamente considerato, si aggiungono altri profili che
specificano ulteriormente la prospettata illegittimità costituzionale,
anche con riferimento al principio di tutela dell’affidamento ed
all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria, necessario a
garantire un processo giusto ed equo davanti ad un tribunale
indipendente, come previsto dall’art. 6 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo.
4.— Con specifico riferimento al meccanismo di blocco
temporaneo degli adeguamenti stipendiali, i rimettenti, oltre a
richiamare il nucleo fondamentale di censura costituito dalla asserita
violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione,
sostengono che la disciplina in esame non avrebbe tenuto conto della
giurisprudenza di questa Corte, in relazione alla necessità che simili
interventi debbano essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e
consentanei allo scopo prefisso».
5.— Con riguardo all’indennità giudiziaria prevista
dall’art. 3 della legge n. 27 del 1981, a giudizio dei TAR rimettenti,
le decurtazioni operate avrebbero tutte le caratteristiche elaborate
dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie
alcune entrate. In particolare, si tratterebbe di una prestazione
doverosa, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti,
collegata alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto
economicamente rilevante.
Secondo i rimettenti, la qualificazione come mera riduzione
di spesa non riuscirebbe ad escludere la reale natura tributaria delle
misure.
Ciò posto, sarebbe evidente l’illegittimità dell’art. 9,
comma 22 (ed anche della disposizione riguardante il “contributo di
solidarietà” di cui al comma 2), in quanto il legislatore, a parità di
capacità contributiva ed in violazione dell’art. 53 della Costituzione,
avrebbe deciso di colpire, con misure continuative, solo una particolare
e ristretta classe di contribuenti.
Sussisterebbe, dunque, la violazione degli artt. 3, 23 e 53
della Costituzione, in quanto, indipendentemente dal nomen iuris
utilizzato, la misura adottata si concreterebbe in una prestazione
patrimoniale imposta di natura sostanzialmente tributaria.
I rimettenti sostengono che sarebbe violato, altresì,
l’art. 36 della Costituzione, poichè, essendo il trattamento economico
del magistrato considerato adeguato solo in quanto integrato dalla
indennità giudiziaria, la decurtazione di quest’ultima determinerebbe
un’alterazione dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi,
incidendo solo sull’aspetto quantitativo della retribuzione.
La misura violerebbe, inoltre, l’art. 3 della Costituzione,
perché la riduzione percentuale di un’indennità fissa, destinata a
compensare gli oneri del lavoro giudiziario, colpirebbe in modo maggiore
i magistrati con minore anzianità di servizio, notoriamente impegnati in
sedi disagiate con esposizione a rischi ed oneri spesso di fatto
maggiori dei colleghi più anziani.
6.— I TAR per l’Abruzzo, Umbria e Calabria (reg. ord. nn.
46, 53, 54, 74 e 75 del 2012) impugnano, anche l’art. 9, comma 2, del
citato decreto-legge n. 78 del 2010, in relazione al taglio del
trattamento economico complessivo oltre i 90.000 euro ed oltre i 150.000
euro.
I rimettenti assumono che tale intervento finanziario,
piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale (melius,
come una riduzione dei trattamenti economici), avrebbe natura
tributaria.
Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53 della Costituzione,
trattandosi di prelievo di natura tributaria, che colpirebbe solamente
la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero rientrano i
magistrati), in contrasto con il principio della «universalità della
imposizione». L’imposta sarebbe, inoltre, discriminatoria, sia in
relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale
i dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di
capacità economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei
“lavoratori”, risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai
dipendenti privati. Tale effetto discriminatorio sarebbe ancor più
evidente alla luce della diversa disciplina riservata al contributo di
solidarietà oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri
cittadini, dall’art. 2 del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale, sebbene giustificato
dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota
inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
7.— I TAR per l’Umbria e per la Calabria (reg. ord. nn. 54
e 74 del 2012) censurano anche il comma 7 dell’art. 12 del più volte
citato d.l. n. 78 del 2010, che consentendo lo scaglionamento delle
corresponsione dell’indennità (fino a tre importi annuali, a seconda
dell’ammontare complessivo della prestazione), determinerebbe una
perdita patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata
previsione di interessi per la dilazione del pagamento, in deroga alla
disciplina delle obbligazioni pecuniarie.
8.— Infine, il solo TAR per l’Umbria, con l’ordinanza
iscritta al reg. ord. n. 54 del 2012, censura il comma 10 dell’art. 12
del d.l. n. 78 del 2010, il quale dispone che sulle anzianità
contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, si applica
l’aliquota del 6,91%, senza determinare il venire meno della trattenuta
a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della
buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per
l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del decreto del
Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del
testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei
dipendenti civili e militari dello Stato). Il regime risultante
violerebbe gli articoli 3 e 36 della Costituzione, in quanto la
trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva
della buonuscita, produrrebbe una riduzione dell’accantonamento,
illogica anche perché in nessuna misura collegata con la qualità e
quantità del lavoro prestato.
9.— In via preliminare, con riferimento al giudizio
iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, va dichiarata l’inammissibilità
dell’atto di intervento ad adiuvandum spiegato da Abbritti Paolo,
magistrato ordinario, intervenuto nel giudizio a quo con atto depositato
solo successivamente all’ordinanza di rimessione e, quindi, allorché
tale giudizio era stato già sospeso.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «sono
ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi
portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al
rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato,
al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura»
(per tutte, sentenze n. 304, n. 293 e n. 199 del 2011; n. 151 del 2009).
In applicazione di detto principio, poiché nel caso di
specie, tenuto conto del tempo in cui è stato spiegato l’intervento nel
giudizio principale e della mancata pronuncia sullo stesso da parte del
TAR, non può ritenersi che Abbritti Paolo abbia assunto la qualità di
parte nel processo a quo, l’intervento da questi spiegato nel giudizio
davanti a questa Corte va dichiarato inammissibile (sentenza n. 220 del
2007 e ordinanza n. 393 del 2008).
9.1.— Ancora in via preliminare, con riferimento ai giudizi
iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012, va dichiarata la manifesta
inammissibilità della questione avente ad oggetto l’art. 9, comma 2, del
d.l. n. 78 del 2010.
In particolare, il TAR per l’Abruzzo, dopo aver premesso
che i ricorsi proposti riguardano le decurtazioni conseguenti
all’applicazione dell’art. 9, comma 22, conclude affermando che le
medesime censure enucleate con riguardo a tale ultima norma varrebbero,
«a maggior ragione», per il prelievo disposto dal comma 2, in quanto
incidente direttamente sul trattamento stipendiale dei ricorrenti.
Analogamente, il TAR per l’Umbria (reg. ord. n. 53 del
2012) premette che i ricorrenti si dolgono del mancato adeguamento
automatico delle proprie retribuzioni, nonché della decurtazione subita
dall’indennità giudiziaria ad essi spettante. Prosegue, altresì,
affermando come risulti rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 e,
tuttavia, procede in conclusione ad impugnare anche la norma contenuta
nel citato comma 2, relativa alla riduzione del trattamento economico
complessivo superiore a 90.000 euro ed a 150.000 euro.
In entrambi i casi, poiché tale profilo del trattamento
economico non aveva fatto parte dei motivi di ricorso delle parti del
giudizio, la questione di legittimità costituzionale risulta
manifestamente inammissibile, in quanto sollevata in relazione ad una
norma di cui il giudice rimettente non deve fare applicazione nel
giudizio a quo (ex pluribus ordinanze n. 256 del 2009 e n. 265 del
2008).
10.— Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento
alle questioni sollevate dalle ordinanze dei TAR per l’Umbria e per la
Calabria, aventi ad oggetto l’art. 12, comma 7, inerenti alle modalità
di corresponsione dell’indennità di buonuscita.
In particolare, secondo i giudici a quibus, la questione
sarebbe rilevante poiché detta norma dovrà essere sicuramente applicata
all’atto di cessazione dal servizio dei ricorrenti, comunque ed in
qualsiasi tempo avvenga. Tuttavia, nessuno dei rimettenti riferisce di
essere investito di una domanda da parte di un magistrato in quiescenza,
per qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, che abbia
subito gli effetti della norma. L’assenza di un pregiudizio e di un
interesse attuale a ricorrere rende evidente come i rimettenti non
debbano fare applicazione della norma impugnata. Inoltre, neppure
risulta individuato alcun immediato pregiudizio subito dai magistrati in
servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento
del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno
successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a
quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero
per anzianità di servizio, ovvero per dimissioni.
Anche tale questione va, pertanto, dichiarata
manifestamente inammissibile.
11.— Nel merito, le questioni relative all’art. 9, comma
22, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevate con riferimento alla
violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sono
fondate.
11.1.— La norma stabilisce che, per il personale di cui
alla legge n. 27 del 1981, «non [siano] erogati, senza possibilità di
recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del
triennio 2010-2012»; e che «per il triennio 2013-2015 l’acconto
spettante per l’anno 2014 [sia] pari alla misura già prevista per l’anno
2010 e il conguaglio per l’anno 2015 [venga] determinato con riferimento
agli anni 2009, 2010 e 2014». Infine, il medesimo comma dispone che nei
confronti del predetto personale non si applicano le disposizioni di cui
ai commi 1 e 21, secondo e terzo periodo.
11.2.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei
magistrati ordinari, nonché dei magistrati del Consiglio di Stato, della
Corte dei conti, della giustizia militare e degli Avvocati e Procuratori
dello Stato è stabilito dagli artt. 11 e 12 della legge 2 aprile 1979,
n. 97 (Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento
economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della
giustizia militare e degli avvocati dello Stato), come sostituiti
dall’art. 2 della citata legge n. 27 del 1981. Tali norme dispongono che
gli stipendi dei magistrati sono adeguati automaticamente ogni triennio,
nella misura percentuale pari alla media degli incrementi delle voci
retributive, esclusa l’indennità integrativa speciale, ottenuti dagli
altri pubblici dipendenti (appartenenti alle amministrazioni statali,
alle aziende autonome dello Stato, università, regioni, provincie e
comuni, ospedali ed enti di previdenza). La percentuale viene calcolata
dall’Istituto centrale di statistica rapportando il complesso del
trattamento economico medio per unità corrisposto nell’ultimo anno del
triennio di riferimento al trattamento economico medio dell’ultimo anno
del triennio precedente, ed ha effetto dal 1° gennaio successivo a
quello di riferimento. La determinazione di tale percentuale è poi
disposta entro il 30 aprile del primo anno di ogni triennio con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro
della giustizia e con quello dell’economia e delle finanze. Sulla base
di questo provvedimento, gli stipendi al 1° gennaio del secondo e del
terzo anno di ogni triennio sono aumentati, a titolo di acconto
sull’adeguamento triennale, per ciascun anno e con riferimento sempre
allo stipendio in vigore al 1° gennaio del primo anno, per il 30 per
cento della variazione percentuale verificatasi fra le retribuzioni dei
dipendenti pubblici nel triennio precedente, con conseguente conguaglio
a decorrere dal 1° gennaio del triennio successivo.
11.3.— Posta questa premessa, va osservato che, nonostante
l’imprecisione della normativa denunciata, la quale considera come anno
di acconto il 2012, correttamente i rimettenti hanno ritenuto che tale
disciplina non possa ingenerare dubbi in relazione alle modalità della
sua applicazione, trattandosi comunque di un blocco della corresponsione
di somme, indipendentemente dal fatto che esse siano dovute a titolo di
acconto o di conguaglio.
11.4.— Nel merito, va ricordato che questa Corte, nel
decidere questioni concernenti norme aventi ad oggetto la retribuzione e
la disciplina dell’adeguamento retributivo dei magistrati, anche e
soprattutto in riferimento a misure economico-finanziarie che ne hanno
ritardato o comunque disciplinato gli effetti nel tempo, ha affermato,
in generale, che l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza
anche mediante «l’apprestamento di garanzie circa lo status dei
componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro,
oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico»
(sentenza n. 1 del 1978).
La sentenza n. 238 del 1990 ha delineato la funzione
dell’adeguamento triennale e dei meccanismi rivalutativi della
retribuzione dei magistrati, affermando che, «In attuazione del precetto
costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata
anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano
soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il
legislatore ha col citato art. 2 predisposto un meccanismo di
adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati che, in quanto
configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento,
concretizza una guarentigia idonea a tale scopo».
Successivamente, la sentenza n. 42 del 1993 ha ribadito che
il sistema di adeguamento automatico è caratterizzato dalla garanzia di
un aumento periodico delle retribuzioni, che viene assicurato per legge,
sulla base di un meccanismo che costituisce un «elemento intrinseco
della struttura delle retribuzioni» la cui ratio consiste nella
«attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei
magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico (…)
evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni
nei confronti di altri poteri». La Corte, in quella occasione, ha
altresì ribadito che il meccanismo di cui all’art. 2 «in quanto
configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento,
concretizza una guarentigia idonea a tale scopo». Lo stesso principio è
stato ancora di recente enunciato in relazione alla disciplina
dell’indennità di funzione (ordinanze n. 137 e n. 346 del 2008).
Secondo una univoca giurisprudenza costituzionale,
pertanto, sussiste un collegamento fra tale disciplina ed i precetti
costituzionali summenzionati, nel senso della imprescindibilità
dell’esistenza di un meccanismo, sia pure non a contenuto
costituzionalmente imposto, che svincoli la progressione stipendiale da
una contrattazione e, comunque, in modo da evitare il mero arbitrio di
un potere sull’altro. Va aggiunto, poi, che siffatti principi sono
confortati dai lavori preparatori della Costituente, dai quali traspare
che l’omessa indicazione specifica dell’indipendenza economica delle
magistrature non ha significato l’esclusione di tale aspetto dal
complesso di condizioni necessario per realizzare l’autonomia ed
indipendenza delle stesse (resoconti dei lavori dell’Assemblea 6
novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 20 novembre 1947, nella seduta
pomeridiana; 26 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 7 novembre
1947, nella seduta pomeridiana; 13 novembre 1947, nella seduta
antimeridiana; 14 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 21 novembre
1947, nella seduta pomeridiana; 11 novembre 1947, nella seduta
pomeridiana).
La specificità di tale disciplina costituisce, peraltro,
anche conseguenza del fatto che la magistratura, nell’organizzazione
dello Stato costituzionale, esercita una funzione ad essa affidata
direttamente dalla Costituzione. Per questa ragione, attraverso un
meccanismo di adeguamento automatico del trattamento economico dei
magistrati, la legge, sulla base dei principi costituzionali, ha messo
al riparo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi
forma di interferenza, che potesse, sia pure potenzialmente, menomare
tale funzione, attraverso una dialettica contrattualistica. In tale
assetto costituzionale, pertanto, il rapporto fra lo Stato e la
magistratura, come ordine autonomo ed indipendente, eccede i connotati
di un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro
possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto.
11.5.— In occasione di pregresse manovre economiche,
recanti deroghe temporanee a tali meccanismi rivalutativi di
adeguamento, disposte, in particolare, in occasione della grave
congiuntura economica del 1992, questa Corte ha già indicato i limiti
entro i quali un tale intervento può ritenersi rispettoso dei principi
sopra sintetizzati.
In particolare, l’ordinanza n. 299 del 1999, premesso che
il decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di
previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni
fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992,
n. 438, era stato emanato in un momento molto delicato per la vita
economico-finanziaria del Paese, caratterizzato dalla necessità di
recuperare l’equilibrio di bilancio, ha affermato che «per esigenze così
stringenti il legislatore ha imposto a tutti sacrifici anche onerosi
(sentenza n. 245 del 1997) e che norme di tale natura possono ritenersi
non lesive del principio di cui all’art. 3 della Costituzione (sotto il
duplice aspetto della non contrarietà sia al principio di uguaglianza
sostanziale, sia a quello della non irragionevolezza), a condizione che
i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e
consentanei allo scopo prefisso». In particolare, la pronuncia ha
precisato che tale intervento, «pur collocandosi in un ambito estremo,
non lede tuttavia alcuno dei precetti indicati, in quanto il sacrificio
imposto ai pubblici dipendenti dal comma 3 del citato art. 7 è stato
limitato a un anno; così come limitato nel tempo è stato il divieto di
stipulazione di nuovi accordi economici collettivi, previsto dal comma 1
dell’art. 7 e che, quindi, tale norma ha imposto un sacrificio non
irragionevolmente esteso nel tempo (sentenza n. 99 del 1995), né
irrazionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini».
Sempre con riferimento al decreto-legge n. 384 del 1992, è
stato altresì sottolineato che il cosiddetto “blocco” dallo stesso
stabilito, di cui era evidente il carattere provvedimentale del tutto
eccezionale, esauriva i suoi effetti nell’anno considerato, limitandosi
a impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio del bilancio
(sentenza n. 245 del 1997), riconosciute meritevoli di tutela a
condizione che le disposizioni adottate non risultassero arbitrarie
(sentenze n. 417 del 1996, n. 99 del 1995, n. 6 del 1994).
11.6.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei
magistrati può, dunque, a certe condizioni essere sottoposto per legge a
limitazioni, in particolare quando gli interventi che incidono su di
esso siano collocati in un quadro di analoghi sacrifici imposti sia al
pubblico impiego (attraverso il blocco della contrattazione – sulla base
della quale l’ISTAT calcola l’aumento medio da applicare), sia a tutti i
cittadini, attraverso correlative misure, anche di carattere fiscale.
Allorquando la gravità della situazione economica e la
previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo considerato
impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un
contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del
pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie
stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di
riequilibrio di bilancio.
Nel caso di specie, i ricordati limiti tracciati dalla
giurisprudenza di questa Corte risultano irragionevolmente oltrepassati.
11.7.— In primo luogo, la disciplina censurata ha posto nel
nulla la determinazione già disposta con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri del 23 giugno 2009, che aveva fissato
l’incremento con decorrenza dal 1° gennaio 2009, incidendo quindi sul
conguaglio del 2012. Pertanto, assume rilievo decisivo la constatazione
che, in relazione a questo aspetto, l’intervento per il solo personale
della magistratura eccede l’obiettivo di realizzare un “raffreddamento”
della dinamica retributiva ed ha, invece, comportato una vera e propria
irragionevole riduzione di quanto già riconosciuto sulla base delle
norme che disciplinano l’adeguamento.
In secondo luogo, oltre ad essere disposto non solo un
raffreddamento della dinamica retributiva, bensì una riduzione di quanto
già spettante per il 2012, è stato impedito qualsiasi recupero di tale
progressione, con l’imposizione di un “tetto” per il conguaglio
dell’anno 2015, determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014;
escludendo pertanto il triennio 2011-2013 e con un effetto
irreversibile.
La fissazione di un “tetto” per l’acconto dell’adeguamento
relativo all’anno 2014 e di un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015,
scollegato peraltro dalle esigenze di bilancio che governano il
provvedimento, costituisce, infatti, un ulteriore illegittimo
superamento dei limiti temporali dell’intervento emergenziale stabilito
dal legislatore per il triennio 2011-2013. Tale disciplina, in quanto
suscettibile di determinare effetti permanenti del blocco
dell’adeguamento soltanto per le categorie interessate dal medesimo
blocco, determina per ciò stesso la violazione dell’art. 3 Cost., nonché
dei ricordati principi costituzionali posti a presidio dell’autonomia e
dell’indipendenza della magistratura. La disciplina in esame realizza,
infatti, una ingiustificata disparità di trattamento fra la categoria
dei magistrati e quella del pubblico impiego contrattualizzato, che,
diversamente dal primo, vede limitata la possibilità di contrattazione
soltanto per un triennio.
Inoltre, l’intervento normativo in questione non solo copre
potenzialmente un arco di tempo superiore alle individuate esigenze di
bilancio, ma soltanto apparentemente è limitato nel tempo, se si
considerano le analoghe misure pregresse che hanno interessato i
meccanismi di adeguamento, in particolare, con riferimento all’art. 1,
comma 576, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge
finanziaria 2007), che riduceva la corresponsione dell’adeguamento
maturato.
In tale contesto, il fatto che i magistrati, in quanto
esclusi dalla possibilità di interloquire in sede contrattuale, si
giovino degli aumenti contrattuali soltanto con un triennio di ritardo,
salva la previsione di acconti, non può consentire di arrecare
esclusivamente ad essi un ulteriore pregiudizio, consistente non
soltanto nella mancata progressione relativa al triennio precedente, ma
anche conseguente all’impossibilità di giovarsi di quella che la
contrattazione nel pubblico impiego potrebbe raggiungere oltre il
triennio di blocco. In questo senso, l’intervento normativo censurato,
oltre a superare i limiti costituzionali indicati dalla giurisprudenza
di questa Corte, che collocava in ambito estremo una misura incidente su
un solo anno, travalica l’effetto finanziario voluto, trasformando un
meccanismo di guarentigia in motivo di irragionevole discriminazione.
In definitiva, la disciplina censurata eccede i limiti del
raffreddamento delle dinamiche retributive, in danno di una sola
categoria di pubblici dipendenti.
11.8.— Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella
parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge n. 27 del
1981, non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli
anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per
tale personale, per il triennio 2013-2015, l’acconto spettante per
l’anno 2014 è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il
conguaglio per l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni
2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto
personale sia applicato il primo periodo del comma 21.
12.— La questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 22, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, nella parte in cui
stabilisce la decurtazione dell’indennità prevista dall’art. 3 della
legge 19 febbraio 1981, n. 27, sollevata in riferimento agli articoli 3
e 53 Cost., è fondata.
12.1.— In limine, va osservato che la giurisprudenza di
questa Corte ha dapprima definito tale indennità come voce collegata al
“servizio istituzionale svolto dai magistrati” (ordinanza n. 57 del
1990).
Successivamente, la sentenza n. 238 del 1990 ha
ulteriormente precisato che la “speciale” indennità di cui si tratta,
correlandosi al peculiare status dei magistrati, costituisce una
componente del loro normale trattamento economico, soggetto ad una
regolamentazione autonoma. Tale componente, tuttavia, secondo la Corte,
è necessariamente correlata al concreto esercizio delle funzioni, in
quanto espressamente collegata ai particolari “oneri” che i magistrati
“incontrano nello svolgimento della loro attività”, la quale comporta
peraltro un impegno senza prestabiliti limiti temporali. La
corresponsione della stessa è, dunque, strettamente connessa
all’effettiva prestazione del servizio (sentenza n. 407 del 1996 e
ordinanza n. 106 del 1997).
Con riferimento alla erogazione di tale indennità nel caso
di astensione obbligatoria dal lavoro dei magistrati, la Corte ha
ribadito la peculiarità di tale voce stipendiale, sia dal punto di vista
del regime di corresponsione e di rivalutazione, sia dal punto di vista
della specialità della sua ispirazione al precetto costituzionale di
autonomia ed indipendenza (ordinanze n. 346 del 2008, n. 137 del 2008,
n. 290 del 2006).
Ai fini della decisione occorre, dunque, tenere conto del
fatto che tale indennità, sebbene sia stata nel tempo considerata anche
come una componente normale della retribuzione, non ha perso la sua
natura particolare, conseguente all’essere la stessa diretta a
compensare un complesso di oneri inscindibilmente connessi alle modalità
di esercizio delle funzioni svolte dai magistrati.
12.2.— Ciò posto, occorre preliminarmente stabilire la
natura giuridica del prelievo stabilito dalla norma impugnata, la quale
statuisce che l’indennità «spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, è
ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per
l’anno 2013».
12.3.— Questa Corte non ritiene che la disposizione in
esame preveda una mera progressiva riduzione dell’indennità.
In primo luogo, la formula utilizzata dal legislatore non
lascia adito a dubbi sul fatto che l’indennità continui ad assolvere la
sua originaria funzione di compensare i particolari oneri connessi al
servizio istituzionale svolto dai magistrati. La “riduzione”, infatti,
non opera ai fini previdenziali e, pertanto, integra non una
decurtazione retributiva, ma un prelievo triennale straordinario per
aliquote crescenti.
In secondo luogo, confinare la misura finanziaria in esame
nell’ambito retributivo significherebbe incorrere in una contraddizione,
dato che dovrebbero ritenersi corrispondentemente ridotti, nel periodo
considerato, quei particolari oneri che essa è diretta a compensare,
riduzione che, all’evidenza, è esclusa. Tale opzione ermeneutica,
inoltre, condurrebbe ad una conclusione altrettanto irragionevole,
poiché essa attribuirebbe al legislatore l’intento di ridurre una
componente connessa ad una soluzione organizzativa in cui
l’amministrazione pubblica, piuttosto che optare per un diretto impiego
di moduli organizzativi e strumentali che tengano indenni economicamente
i magistrati dai predetti oneri, ha ritenuto più vantaggioso affidarne a
questi ultimi una porzione, previo specifico ristoro economico,
sottratto, dunque, ad imposizioni tributarie diverse da quelle che già
colpiscono, a mezzo ritenuta, tali somme.
Per altro verso, poi, trattandosi di una componente del
trattamento economico collegata ai principi di autonomia ed indipendenza
della magistratura, la sua riduzione, in sé, in aggiunta alla mancata
rivalutazione, determinerebbe un ulteriore vulnus della Costituzione.
Vero è che, esclusa la configurabilità di un prelievo
forzoso sine causa, deve ritenersi che la decurtazione oggetto della
questione di costituzionalità, nonostante il riferimento testuale ad una
“riduzione” e ad un “contenimento delle spese”, rivesta carattere
tributario, trattandosi all’evidenza di una prestazione patrimoniale
imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere
ablatorio, destinata a sovvenire le pubbliche spese. La ratio della
disposizione censurata, in altri termini, è quella di reperire risorse
per l’erario.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente
precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria
sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a
procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del
soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un
rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un
rapporto di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico
statale “non contrattualizzato”); le risorse connesse ad un presupposto
economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione sono
destinate a sovvenire pubbliche spese.
Questi tre richiamati requisiti, congiuntamente
considerati, ricorrono nella misura in esame, considerato che
l’indennità giudiziaria partecipa di una natura retributiva e la sua
decurtazione, ai fini del «contenimento delle spese in materia di
impiego pubblico» (come reca la rubrica dell’art. 9 censurato),
costituisce il dichiarato e prevalente intento del legislatore. Inoltre,
la misura denunciata neppure ha modificato l’istituto dell’indennità
giudiziaria, perché alla temporanea diminuzione di alcuni punti
percentuali della entità di tale indennità non corrisponde, come sopra
precisato, né la correlativa riduzione degli obblighi e prestazioni
previdenziali, né la riduzione dei carichi lavorativi che l’indennità è
diretta a compensare. Infine, l’assenza di una espressa indicazione
della destinazione delle maggiori risorse conseguite dallo Stato non
esclude che siano destinate a sovvenire pubbliche spese, e, in
particolare, a stabilizzare la finanza pubblica, trattandosi di un
usuale comportamento del legislatore quello di non prevedere, per i
proventi delle imposte, una destinazione diversa dal generico “concorso
alle pubbliche spese” desumibile dall’art. 53 Cost. Nella specie, tale
destinazione si desume anche dal titolo stesso del decreto-legge:
«Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica», in coerenza con le finalità generali delle
imposte.
12.4.— Ritenuta la natura tributaria della misura in esame,
questa non è immune dalle censure di illegittimità costituzionale
prospettate da tutti i rimettenti con riferimento agli articoli 3 e 53
Cost.
Il tributo che interessa incide su una particolare voce di
reddito di lavoro, che è parte di un reddito lavorativo complessivo già
sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri
percettori di reddito di lavoro; e introduce, quindi, senza alcuna
giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto ai danni della
particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che
beneficia dell’indennità giudiziaria. Con la sua applicazione, infatti,
viene colpita piú gravemente, a parità di capacità contributiva per
redditi di lavoro, esclusivamente detta categoria. Ove, poi, si potesse
prescindere da tale pur decisiva considerazione, la previsione di
siffatto tributo speciale comporterebbe comunque una ingiustificata
disparità di trattamento con riguardo alle indennità percepite dagli
altri dipendenti statali, non assoggettate, negli stessi periodi
d’imposta, ad alcun prelievo tributario aggiuntivo. È opportuno
sottolineare che l’indicata disparità di trattamento è tanto piú
ingiustificata in quanto proprio la sopra ricordata funzione
dell’indennità giudiziaria di compenso all’attività dei magistrati di
supplenza alle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia,
esige il piú scrupoloso rispetto da parte del legislatore dei canoni
della ragionevolezza e dell’uguaglianza.
12.5.— Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella
parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3
della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale
legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno
2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013.
Restano assorbite le ulteriori censure.
13.— La questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli
articoli 3 e 53 Cost., è del pari fondata.
13.1.— La disposizione, nella parte censurata, prevede che
«a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i
trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di
qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle
amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale
di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31
dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti
del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro,
nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro».
13.2.— Anche la decisione su tale questione richiede,
preliminarmente, di accertare se la norma censurata preveda una mera
riduzione del trattamento economico, incidente solo sul contenuto del
rapporto lavorativo dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (come
afferma l’Avvocatura generale dello Stato), oppure introduca un vero e
proprio prelievo tributario (come sostengono i TAR rimettenti).
13.2.1.— Come già osservato in precedenza, questa Corte ha
piú volte affermato che, indipendentemente dal nomen iuris attribuitole
dal legislatore, al fine di valutare se una decurtazione patrimoniale
definitiva integri un tributo, occorre interpretare la disciplina
sostanziale che la prevede alla luce dei criteri indicati dalla
giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria
di tributo: cioè la doverosità della prestazione, in mancanza di un
rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di tale
prestazione con la pubblica spesa, in relazione ad un presupposto
economicamente rilevante (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2009, n. 335
e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). Un tributo consiste,
quindi, in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle
pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad
uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del
2008); indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto
all’obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n.
89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964).
13.2.2.— Tanto premesso, va constatato che la disposizione
impugnata (introdotta dal medesimo incipit e sorretta dalla medesima
ratio del contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo» e convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, la cui natura
tributaria è indubitabile) partecipa di tutti i sopra indicati elementi
caratteristici del prelievo tributario.
In primo luogo, è stata stabilita in via autoritativa una
decurtazione patrimoniale («riduzione» del trattamento economico), senza
che rilevi la volontà – in ordine all’an, al quantum, al quando ed al
quomodo – di chi la subisce.
In secondo luogo, la norma stabilisce che le risorse rese
disponibili dalla «riduzione» del trattamento economico sono acquisite
al bilancio dello Stato, senza operare alcuna distinzione tra le diverse
categorie di dipendenti pubblici e, in particolare, tra i dipendenti
pubblici statali e non statali. Ne deriva che la misura finanziaria in
esame non può integrare una nuova disciplina del rapporto sinallagmatico
tra datore di lavoro e dipendente, perché lo Stato non avrebbe titolo
per modificare con la disposizione in esame i trattamenti economici di
rapporti lavorativi di cui non è parte. In altri termini, gli enti
pubblici non statali (territoriali o no), nella loro qualità di datori
di lavoro, non traggono alcun beneficio economico dalla predetta
«riduzione», ma agiscono come «sostituti d’imposta» per le imposte sui
redditi, trattenendo gli importi indicati dalla norma denunciata (quali
«ritenute alla fonte») e provvedendo al loro «versamento diretto»
all’erario per conto dei “sostituiti” propri dipendenti (ai sensi degli
artt. 1, lettera b, e 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante
«Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito»). Inoltre, la
permanenza degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione»
(terzo periodo dell’impugnato comma 2: «La riduzione […] non opera ai
fini previdenziali») costituisce ulteriore e definitiva dimostrazione
che la temporanea decurtazione del trattamento economico integra, in
realtà, un prelievo a carico del dipendente pubblico e non una
modificazione (peraltro unilaterale) del contenuto del rapporto di
lavoro, alla quale avrebbe dovuto necessariamente conseguire, secondo
ragionevolezza, una corrispondente modificazione di tali obblighi. Né a
conclusioni diverse può giungersi per i soli dipendenti statali
cosiddetti “non contrattualizzati”, per i quali una modifica del
trattamento economico avrebbe necessariamente richiesto un intervento
legislativo. È evidente, infatti, che l’unitarietà della disciplina
posta dalla norma censurata (che, come già osservato, non distingue tra
diverse categorie di dipendenti pubblici ed ha riguardo al «trattamento
economico complessivo», comprensivo anche di voci stipendiali ed
indennitarie corrisposte allo stesso soggetto da diverse amministrazioni
pubbliche) e la permanenza in ogni caso degli obblighi previdenziali al
lordo della «riduzione» impediscono di ritenere che per i soli
dipendenti statali non contrattualizzati la norma impugnata abbia
introdotto una nuova, temporanea e parziale disciplina del rapporto
lavorativo. L’unica particolarità per i dipendenti statali
(contrattualizzati o no) consiste nel fatto (non rilevante ai fini del
presente giudizio) che il prelievo è effettuato dallo Stato mediante
«ritenuta diretta», ai sensi degli artt. 1, lettera a), e 2 del d.P.R.
n. 602 del 1973.
In terzo luogo, sussiste il collegamento del prelievo con
la pubblica spesa, in quanto lo stesso legislatore afferma che la norma
impugnata risponde alla dichiarata ratio di destinare le risorse rese
disponibili dalla decurtazione patrimoniale del trattamento economico
complessivo dei dipendenti pubblici al bilancio dello Stato per
raggiungere, nei tempi previsti, gli obiettivi concordati in sede
europea, cioè il pareggio di bilancio e, in particolare, la diminuzione
del debito pubblico.
In quarto luogo, il presupposto economicamente rilevante in
relazione al quale è previsto il prelievo è, con tutta evidenza, il
complessivo reddito di lavoro conseguito dal dipendente pubblico nel
periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013. Le stesse modalità
applicative della misura seguite dal Ministero dell’economia e delle
finanze, includendo nel montante lordo liquidato nel corso dell’anno,
anche gli arretrati sia relativi all’anno corrente che per anni
precedenti, sia delle competenze fisse che di quelle accessorie,
ricollega la misura, più che al trattamento economico del dipendente, al
reddito da lavoro pubblico, che concorre a formare il calcolo del
risultato impositivo.
Occorre, perciò, concludere che la normativa, nonostante la
formulazione letterale della norma in esame, non può considerarsi una
riduzione delle retribuzioni, come sostiene l’Avvocatura dello Stato,
allorchè, nella memoria difensiva, individua la necessità
dell’intervento nel suggerimento dei presidenti (uscente e nominato)
della BCE (banca centrale per la moneta unica europea) contenuto in una
lettera al Governo italiano.
Si tratta, invece, di una imposta speciale prevista nei
confronti dei soli pubblici dipendenti.
13.3.— Ritenuta la natura tributaria del prelievo stabilito
dalla norma censurata, occorre valutarne la conformità con i parametri
evocati.
13.3.1.— In proposito va ricordato che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, «la Costituzione non impone affatto una
tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e
proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige
invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un
quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento
ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di
eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli
economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei
cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e
sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000).
Pertanto, il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi
di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio
di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio
sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei
suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare
la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto
economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione»
(sentenza n. 111 del 1997).
Nella specie, pure considerando al giusto la
discrezionalità legislativa in materia, la norma impugnata si pone in
evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. L’introduzione di una
imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione
soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a
parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale
violazione si manifesta sotto due diversi profili.
Da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è
ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. D’altro lato,
il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del
2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del
3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire
risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di
imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità,
l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura. Nel caso in
esame, dunque, l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo
denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei
soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti
interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di
irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai
pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che
avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove
il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini
e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale”
intervento impositivo. L’eccezionalità della situazione economica che lo
Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di
consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel
difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi
finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti
cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche
in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente
alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può
consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato
l’ordinamento costituzionale.
In conclusione, il tributo imposto determina un
irragionevole effetto discriminatorio.
13.4.— Di conseguenza, va pronunciata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella
parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31
dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli
dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi
ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3
dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e
finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del
5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro,
nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro.
14.— Anche la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevata in
riferimento agli articoli 3 e 36 Cost. è fondata.
La premessa interpretativa del TAR per l’Umbria è,
innanzitutto, corretta in punto di ricostruzione del quadro normativo,
poiché la mancata espressa esclusione del permanere della trattenuta a
carico del lavoratore non potrebbe indurre a far uso dell’argomento a
silentio sia pure per perseguire un’interpretazione costituzionalmente
orientata. Il perdurare del prelievo di cui si discute, infatti, oltre a
derivare dall’astratta compatibilità fra il nuovo regime e la disciplina
contenuta nel d.P.R. n. 1032 del 1973, è avvalorato dal fatto che il
citato art. 12, comma 10, non contiene affatto una disciplina organica
sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, in
grado di sostituirsi, in senso novativo, al d.P.R. n. 1032 del 1973,
come del resto ritenuto dall’Amministrazione in sede applicativa.
Ciò posto, va osservato che fino al 31 dicembre 2010 la
normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento
complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una
trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre
sull’80% della retribuzione. La differente normativa pregressa prevedeva
dunque un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e,
a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa
sul dipendente di cui si discute.
Nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla norma
impugnata, invece, la percentuale di accantonamento opera sull’intera
retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul
dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina una
diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della
quantità del TFR maturata nel tempo.
La disposizione censurata, a fronte dell’estensione del
regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei
trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a
fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente
l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza
escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del
dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita,
operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di
buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n.
1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione
dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e
quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione –
determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti
pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte
del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli
articoli 3 e 36 della Costituzione.
14.1.— Va, quindi, pronunciata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella
parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della
rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37,
comma 1, del d.P.R. n. 1032 del 1973.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato, nel
giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, da Abbritti Paolo;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9,
comma 22, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella
parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge 19 febbraio
1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura) non sono
erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011,
2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale
personale, per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014
è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per
l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e
2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia
applicato il primo periodo del comma 21;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9,
comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che
l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981,
spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e
2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del
32% per l’anno 2013;
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9,
comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a
decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti
economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica
dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni
pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica
(ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre
2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a
90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il
predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte
eccedente 150.000 euro;
5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo
12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude
l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della
base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del decreto del
Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del
testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei
dipendenti civili e militari dello Stato);
6) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del
2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012,
dai TAR per l’Abruzzo e per l’Umbria;
7) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 7, del d.l. n. 78 del
2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 54 e 74 del 2012,
dai TAR per l’Umbria e per la Calabria.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 ottobre 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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