SENTENZA N. 331
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA;
Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe
TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Sergio MATTARELLA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12,
comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1,
comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dalla
Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di E.S.A.K.M.F.
ed altri con ordinanza del 27 aprile 2011, iscritta al n. 169 del
registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2011 il
Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 27 aprile 2011, la Corte
di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo
comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della
legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3
del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere,
salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in
cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure.
La Corte rimettente riferisce che, con ordinanza del 3
novembre 2010, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice
distrettuale del riesame, aveva confermato l’ordinanza di custodia
cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Latina nei confronti di cinque cittadini egiziani,
da tempo residenti Italia. Agli indagati era contestato il delitto
di cui all’art. 12, comma 3, lettere a), b) e d), del d.lgs. n. 286
del 1998, per aver compiuto, tra il 3 e il 4 ottobre 2010, atti
diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello
Stato di alcuni stranieri, giunti con un peschereccio davanti alla
costa di Borgo Grappa, trasportandoli a terra con un gommone e
conducendoli presso un’abitazione sita in Anzio. Si trattava, cioè,
«della ipotesi autonoma del reato di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina, aggravata in relazione al numero dei
migranti trasportati, alle condizioni di pericolo in cui si è svolto
il trasporto e al numero dei concorrenti nel reato».
Ravvisati, a carico degli indagati, i gravi indizi di
colpevolezza, il Tribunale del riesame rilevava come – non essendo
stati acquisiti elementi dai quali evincere l’insussistenza di
esigenze cautelari – risultasse operante, nella specie, la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria,
stabilita dall’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, che
privava il giudice di ogni discrezionalità nella scelta della misura
cautelare applicabile.
Avverso la decisione proponevano ricorso per cassazione
gli indagati, reiterando l’eccezione di illegittimità costituzionale
del citato art. 12, comma 4-bis, già disattesa dal Tribunale. I
ricorrenti formulavano, altresì, motivi volti a denunciare un
preteso profilo di nullità dell’ordinanza impugnata, nonché la
carenza di motivazione della medesima in ordine alla sussistenza
delle condizioni di cui agli artt. 273 e 274 del codice di procedura
penale.
Ad avviso della Corte rimettente, mentre i motivi da
ultimo indicati non potrebbero essere accolti, la questione di
legittimità costituzionale risulterebbe rilevante e non
manifestamente infondata.
Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva come,
nei motivi di ricorso, si sostenga – «non senza fondamento» – che il
fatto non è stato commesso nell’ambito di una struttura criminale
organizzata avente caratteristiche di stampo mafioso: circostanza
che emergerebbe, in effetti, dallo stesso provvedimento impugnato,
nel quale si riconosce come «la rudimentale organizzazione delle
attività di collaborazione poste in essere da ciascuno degli
indagati deponga per una condotta episodica e, in sostanza, di non
peculiare gravità». D’altra parte, fin dall’inizio del procedimento,
lo stesso pubblico ministero aveva ritenuto di dover distinguere la
posizione di almeno uno degli indagati, chiedendo che al medesimo
fosse applicata la misura degli arresti domiciliari: istanza non
accolta dal giudice – che pure, di regola, non può disporre una
misura più afflittiva di quella richiesta dal pubblico ministero –
solo in ragione della previsione limitativa contenuta nella norma
denunciata.
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice
a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010,
abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con
gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., dell’art.
275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere
che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai
delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater
del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere,
salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in
cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure.
Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni
poste a base di tale pronuncia – sinteticamente ripercorse
nell’ordinanza di rimessione – varrebbero anche in rapporto
all’omologa previsione della norma censurata. In particolare, allo
stesso modo dei delitti a sfondo sessuale oggetto della citata
sentenza n. 265 del 2010, neppure i delitti di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina potrebbero essere assimilati, sotto il
profilo che interessa, ai delitti di mafia, in rapporto ai quali
questa Corte (con l’ordinanza n. 450 del 1995) ha ritenuto
giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola
custodia cautelare in carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina – consistente nel compimento di atti diretti a procurare
l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato – è,
infatti, un delitto che, pure nelle ipotesi aggravate, può essere
compiuto anche occasionalmente, con condotte individuali fortemente
differenziate tra loro e al di fuori di una struttura criminale
organizzata.
In questa prospettiva, la norma censurata violerebbe sia
l’art. 3 Cost., sottoponendo irrazionalmente i delitti in questione
al medesimo trattamento cautelare previsto per i delitti di mafia;
sia l’art. 13, primo comma, Cost., introducendo una deroga al regime
ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale
senza una adeguata ragione giustificatrice; sia, infine, l’art. 27,
secondo comma, Cost., attribuendo alla coercizione processuale
tratti funzionali tipici della pena, in contrasto con la presunzione
di non colpevolezza dell’imputato prima della condanna definitiva.
2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità
costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa dello Stato rileva che è ben vero che questa
Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, ha dichiarato
costituzionalmente illegittima, con riferimento a taluni delitti a
sfondo sessuale, l’analoga disposizione dell’art. 275, comma 3, cod.
proc. pen.: declaratoria di illegittimità costituzionale
successivamente estesa dalla sentenza n. 164 del 2011 anche al
delitto di omicidio volontario (art. 575 cod. pen.).
In precedenza, tuttavia, la Corte, con l’ordinanza n.
450 del 1995, aveva escluso che la presunzione sancita dal citato
art. 275, comma 3, cod. proc. pen. potesse ritenersi
costituzionalmente illegittima in riferimento ai delitti di mafia,
tenuto conto della specificità degli stessi, caratterizzati dalla
permanenza e dalla «vischiosità» del rapporto del reo con il
sodalizio criminoso di appartenenza. Nell’occasione, la Corte aveva
specificamente affermato che, mentre l’apprezzamento delle esigenze
cautelari («l’an della cautela») deve essere lasciato al giudice,
l’individuazione del tipo di misura cautelare («il quomodo») può
bene essere operata, in termini generali, dal legislatore, nel
rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto
bilanciamento dei valori coinvolti.
La giurisprudenza costituzionale avrebbe valutato,
quindi, diversamente le presunzioni di adeguatezza della sola
custodia cautelare, a seconda della natura dei reati e della
pericolosità sociale degli indiziati.
A questo riguardo, andrebbe tenuto conto del fatto che
le citate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011 hanno
riguardato figure criminose – quali i reati sessuali e l’omicidio
volontario – che, nella maggior parte dei casi, si pongono al di
fuori di un contesto di criminalità organizzata. Di contro, le
fattispecie delittuose previste dall’art. 12, comma 3, del d.lgs. n.
286 del 1998 – se pure non costituiscono, di per sé, reati a
concorso necessario – colpirebbero condotte poste in essere, nella
generalità delle ipotesi concrete, da soggetti inseriti in
organizzazioni criminali stabilmente dedite a promuovere o a
favorire l’ingresso clandestino di cittadini extracomunitari nel
territorio dello Stato. Come comprovato anche dall’esperienza
giudiziaria, i reati in discorso richiederebbero, infatti, una
adeguata predisposizione di mezzi e l’impiego di uomini
specificamente «addestrati per il traffico di esseri umani». Di
conseguenza, essi risulterebbero assimilabili più ai delitti di
criminalità organizzata indicati nell’art. 51, comma 3-bis, cod.
proc. pen., che non a quelli oggetto delle richiamate sentenze n.
265 del 2010 e n. 164 del 2011.
Così come in rapporto ai delitti di mafia in senso
lato, non potrebbe ritenersi, dunque, irragionevole che il
legislatore abbia individuato nella custodia in carcere l’unica
misura idonea a fronteggiare le esigenze cautelari in rapporto alle
figure criminose di cui si discute. Ciò, sia in considerazione della
necessità di interrompere il vincolo che lega il singolo soggetto al
gruppo criminale di appartenenza, obiettivo che le misure cautelari
più lievi risulterebbero inidonee a realizzare; sia in ragione
dell’«alto coefficiente di pericolosità per la sicurezza collettiva
connaturato alle suddette fattispecie di reato, anche in relazione
alla recrudescenza del fenomeno».
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge
15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), nella parte in cui non consente di applicare misure
cautelari diverse e meno afflittive della custodia cautelare in
carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in
ordine a taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina, previsti dal comma 3 del medesimo art. 12.
Il giudice a quo reputa estensibili ai procedimenti
relativi a detti reati le ragioni che hanno indotto questa Corte,
con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente
illegittima l’analoga presunzione prevista dall’art. 275, comma 3,
del codice di procedura penale in riferimento a taluni delitti a
sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater
del codice penale).
Al pari di tali delitti, neanche le fattispecie di cui
all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 potrebbero essere,
infatti, assimilate, sotto il profilo in esame, ai delitti di mafia,
relativamente ai quali questa Corte ha ritenuto giustificabile la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in
carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina potrebbe
essere infatti realizzato, anche nelle ipotesi aggravate cui la
norma censurata fa riferimento, con condotte profondamente diverse
tra loro, indipendenti da una struttura criminale organizzata, e
tali, dunque, da proporre esigenze cautelari affrontabili anche con
misure diverse dalla custodia carceraria.
La presunzione censurata verrebbe, di conseguenza, a
porsi in contrasto – conformemente a quanto deciso dalla citata
sentenza n. 265 del 2010 – con i principi di eguaglianza e di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà
personale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione
di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).
2.– La questione è fondata.
3.– La norma denunciata assoggetta i reati di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da essa considerati a
uno speciale e più severo regime cautelare, omologo a quello
prefigurato, in rapporto a un complesso di altre figure delittuose,
dall’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettere a) e
a-bis), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009, n. 38.
Si tratta di un regime che fa perno su una duplice
presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze
cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il
legislatore adeguata – ove la presunzione relativa non risulti vinta
– unicamente la custodia cautelare in carcere.
3.1.– Come ricorda il giudice a quo, questa Corte, con
la sentenza n. 265 del 2010, ha già dichiarato costituzionalmente
illegittima la norma del codice di cui quella censurata replica le
cadenze, nella parte in cui configura una presunzione assoluta di
adeguatezza della sola misura carceraria nei confronti degli
indiziati di taluni delitti a sfondo sessuale (induzione o
sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti
sessuali con minorenne).
Ad analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale
la Corte è altresì pervenuta, successivamente all’ordinanza di
rimessione, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui
rende operante la predetta presunzione assoluta anche nei
procedimenti per i delitti di omicidio volontario (sentenza n. 164
del 2011) e di associazione finalizzata al traffico illecito di
sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011).
3.2.– Nelle decisioni ora citate, questa Corte ha
rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento
– segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà
personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non
colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle
misure cautelari debba essere ispirata al criterio del «minore
sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale va
contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare
le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore,
da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello
della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure
alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla
libertà personale; dall’altra, a prefigurare criteri per scelte
«individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle
esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. Canoni ai
quali non contraddice, la disciplina generale del codice di
procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di
misure di gravità crescente (artt. 281-285) e sulla correlata
enunciazione del principio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1), al
lume del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno
afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze
cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far
ricorso alla misura “massima” (la custodia cautelare in carcere)
solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3,
primo periodo).
3.3.– Discostandosi in modo marcato da tale regime, il
novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. – e, sulla sua
falsariga, la norma oggi sottoposta a scrutinio – sottraggono, per
converso, al giudice ogni potere di scelta, vincolandolo a disporre
la misura maggiormente rigorosa, senza alcuna possibile alternativa,
allorché la gravità indiziaria attenga a determinate fattispecie di
reato. Questa soluzione normativa si traduce in una valutazione
legale di idoneità della sola custodia carceraria a fronteggiare le
esigenze cautelari (presunte, a loro volta, iuris tantum).
A tale proposito, questa Corte ha, peraltro, ribadito
che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto
fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se
sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di
esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod
plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della
presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole”
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenze n.
231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
L’evenienza ora indicata era puntualmente riscontrabile
in rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte in
cui risultava riferita, tra gli altri, tanto ai delitti a sfondo
sessuale dianzi indicati (sentenza n. 265 del 2010), quanto
all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011), quanto, ancora,
all’associazione finalizzata al narcotraffico (sentenza n. 231 del
2011). A tali figure delittuose non poteva, infatti, estendersi la
ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata dalla
Corte in rapporto ai delitti di mafia (i soli considerati dall’art.
275, comma 3, cod. proc. pen. anteriormente alla novella legislativa
del 2009) (ordinanza n. 450 del 1995): ossia che dalla struttura
stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche –
legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo
mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di
norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una
fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza
intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una
regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza
cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia
in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i
rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza,
neutralizzandone la pericolosità).
Connotazioni analoghe non erano infatti riscontrabili
in rapporto alle figure criminose sopra elencate. Pur nella loro
indubbia gravità e riprovevolezza – destinata a pesare
opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore,
quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza – i
suddetti delitti abbracciano, infatti, ipotesi concrete marcatamente
eterogenee tra loro e suscettibili soprattutto di proporre, in un
numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente
fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella
carceraria.
Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l’art. 275, comma
3, cod. proc. pen. violasse, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per
l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti
considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per
l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle
diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi
punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente
fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative
della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma,
Cost., per essere attribuiti alla coercizione processuale tratti
funzionali tipici della pena.
4.– Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche in
rapporto alle figure di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina, cui il regime cautelare speciale è esteso dal censurato
art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Si tratta, in specie, delle ipotesi previste dal comma
3 del medesimo articolo (oggetto, a sua volta, di profonda modifica
ad opera della legge n. 94 del 2009), nelle quali il fatto di
favoreggiamento – identificato in quello di chi, in violazione del
testo unico sull’immigrazione, «promuove, dirige, organizza,
finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello
Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente
l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del
quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza
permanente» – viene configurato come fattispecie distinta e più
severamente punita di quella di cui al comma 1, per il concorso di
elementi che accrescono, nella valutazione legislativa, il disvalore
dell’illecito. Tali elementi attengono, alternativamente, al numero
degli stranieri agevolati (lettera a) o dei concorrenti nel reato
(lettera d, prima parte); alle modalità del fatto (che espongano a
pericolo la vita o l’incolumità del trasportato o lo sottopongano a
trattamento inumano o degradante: lettere b e c); ai mezzi
utilizzati (servizi internazionali di trasporto o documentazione
alterata, contraffatta o comunque illegalmente ottenuta: lettera d,
seconda parte); alla disponibilità, infine, di armi o materie
esplodenti da parte degli autori del fatto (lettera e).
Anche in ragione dell’alternatività delle ipotesi ora
indicate, la figura delittuosa viene, peraltro, a ricomprendere
fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro, sotto il
profilo che qui rileva.
Il delitto in discorso costituisce, infatti, un reato a
consumazione anticipata, che si perfeziona con il solo compimento di
«atti diretti a procurare» l’ingresso illegale di stranieri «nel
territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona
non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente». Il verbo
«procurare» conferisce, altresì, alla fattispecie un’ampia
latitudine applicativa, abbracciando qualunque apporto efficiente e
causalmente orientato a produrre il risultato finale, ivi comprese –
secondo una corrente lettura giurisprudenziale – talune attività
immediatamente successive all’arrivo in Italia degli stranieri, che
agevolino l’esito dell’operazione.
Dal paradigma legale tipico esula, in ogni caso, il
necessario collegamento dell’agente con una struttura associativa
permanente. Il reato può bene costituire frutto di iniziativa
meramente individuale: la presenza di un numero di concorrenti pari
o superiore a tre è, infatti – come accennato – solo una delle
ipotesi alternativamente considerata dalla citata norma. D’altra
parte, quando pure risulti ascrivibile a una pluralità di persone,
il fatto può comunque mantenere un carattere puramente episodico od
occasionale e basarsi su una organizzazione rudimentale di mezzi:
evenienza, questa, che – stando a quanto si riferisce nell’ordinanza
di rimessione – si sarebbe, del resto, verificata nel caso oggetto
del giudizio a quo. Ciò, indipendentemente dal rilievo che, secondo
quanto già chiarito da questa Corte in rapporto al delitto di
associazione finalizzata al narcotraffico, neppure la natura
associativa del reato basterebbe, di per sé sola, a legittimare la
presunzione in parola, ove non accompagnata da una particolare
“qualità” del vincolo fra gli associati, come nell’ipotesi
dell’associazione mafiosa (sentenza n. 231 del 2011).
In sostanza, dunque, le fattispecie criminose cui la
presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate
connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale,
rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula
abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi
scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una
tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per
le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in
rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati,
essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera
circostanza aggravante (comma 3-bis, lettera b, dell’art. 12 del
d.lgs. n. 286 del 1998).
L’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al
paradigma punitivo astratto non consente, dunque, di enucleare una
regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le
«connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la
custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a
fronteggiare le esigenze cautelari.
La presunzione assoluta censurata non può neppure
rinvenire la sua base di legittimazione costituzionale nella gravità
astratta del reato di favoreggiamento dell’immigrazione, né
nell’esigenza di eliminare o ridurre le situazioni di allarme
sociale correlate all’incremento del fenomeno della migrazione
clandestina. Va, infatti, ribadito quanto già affermato al riguardo
da questa Corte: e, cioè, che la gravità astratta del reato,
considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura
dell’interesse protetto, è significativa ai fini della
determinazione della sanzione, ma inidonea a fungere da elemento
preclusivo alla verifica del grado delle esigenze cautelari e
all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte;
mentre il rimedio all’allarme sociale causato dal reato non può
essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare,
costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone
la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato
l’allarme (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010).
5.– Ciò che vulnera i valori costituzionali non è la
presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una
indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del
«minore sacrificio necessario». Di contro, la previsione di una
presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria –
atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio
suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato,
ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i
limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non
censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria
configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso
(sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010).
Il comma 4-bis dall’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998
va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte
in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi
dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa
salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici,
in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12,
comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1,
comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui
– nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza
in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre
misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2011.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI