Consulta: inapplicabilità dello "spoil system" alle qualifiche dirigenziali

 

La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 103 e 104 del 2007, ha sancito l'inapplicabilità dello "spoil sistem" alle qualifiche dirigenziali così come previsto dalla legge del 2002.

 

 

SENTENZA N. 103

ANNO 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          ”

- Ugo             DE SIERVO         ”

- Romano          VACCARELLA        ”

- Paolo           MADDALENA         ”

- Alfio           FINOCCHIARO       ”

- Alfonso         QUARANTA          ”

- Franco          GALLO             ”

- Luigi           MAZZELLA          ”

- Gaetano         SILVESTRI         ”

- Sabino          CASSESE           ”

- Maria Rita      SAULLE            ”

- Giuseppe        TESAURO           ”

- Paolo Maria     NAPOLITANO        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 3, commi 1, lettera b), e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato), promossi con ordinanze del 14 dicembre 2005, del 1° febbraio, del 18 gennaio, del 1° febbraio, dell'11 e del 3 marzo 2006 e del 4 novembre 2005 dal Tribunale di Roma rispettivamente iscritte ai nn. 38, 97, 107, 157, 158, 159 e 547 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8, 15, 16, 22 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visti gli atti di costituzione di Gaetano Cuozzo, di Rossana Rummo, di Michele Calascibetta, di Claudio De Giuli, di Elisabetta Midena, di Eugenio Ceccotti, di Fabio Iodice, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 6 marzo 2007 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

    uditi gli avvocati Vittorio Angiolini, Amos Andreoni e Luisa Torchia per Gaetano Cuozzo, Vittorio Angiolini, Amos Andreoni, Luisa Torchia e Massimo Luciani per Rossana Rummo, Michele Calascibetta, Claudio De Giuli, Elisabetta Midena, Eugenio Ceccotti e Fabio Iodice e l'avvocato dello Stato Aldo Linguiti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1.— Con ordinanza del 4 novembre 2005 (r.o. n. 547 del 2006) il Tribunale di Roma, nel corso di una controversia di lavoro introdotta dal dott. Fabio Iodice nei confronti del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (MIUR), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 1, lettera b), e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato), per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 70, 97 e 98 della Costituzione.

    Il giudice a quo premette che il ricorrente ha stipulato, in data 8 gennaio 2001, con il Ministero della pubblica istruzione un contratto a tempo determinato, di durata quinquennale, avente ad oggetto il conferimento di un incarico di direzione di un ufficio di livello dirigenziale generale, nella specie, direzione dell'ufficio scolastico regionale delle Marche.

    In data 24 settembre 2002, con nota n. 11275, l'amministrazione di appartenenza comunicava al ricorrente la mancata conferma dell'incarico già ricoperto «preannunciandogli» l'attribuzione di un incarico di studio della durata non superiore ad un anno con mantenimento del precedente trattamento economico, in applicazione dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002.

    Con successiva nota n. 11300 del 25 settembre 2002, l'amministrazione proponeva l'attribuzione ad altro soggetto dell'incarico precedentemente ricoperto dal ricorrente. In pari data la stessa amministrazione procedeva ad attribuire tutti gli incarichi relativi ai restanti posti di funzione dirigenziale di livello equivalente all'incarico originariamente attribuito allo stesso ricorrente.

    Quest'ultimo proponeva ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, prospettando questione di legittimità costituzionale della citata norma e chiedendo di ordinare al Ministero convenuto di ripristinarlo nelle originarie funzioni.

    In sede cautelare, veniva ordinato all'amministrazione di attribuire al ricorrente una funzione equivalente in relazione ai posti vacanti o assegnati ad interim alla data di notifica del ricorso.

    In sede di reclamo, il Tribunale, in composizione collegiale, revocava il predetto provvedimento cautelare impugnato.

    Nelle more dell'emanazione della suddetta ordinanza di revoca, il ricorrente proponeva ricorso per la prosecuzione del giudizio di merito, chiedendo che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, al fine di ottenere la condanna del Ministero al ripristino delle sue originarie funzioni, e prospettando anche richieste «in via subordinata».

    Chiedeva in ogni caso la condanna del MIUR a corrispondergli «la retribuzione originariamente pattuita fino alla scadenza naturale del 31 gennaio 2006; la condanna del MIUR al risarcimento del danno subito per effetto del demansionamento subito; il riconoscimento del diritto di chance nell'accesso ad incarichi dirigenziali di livello generale (…) ordinando alla parte convenuta la ricostruzione della carriera, oltre al risarcimento del danno da perdita di chance; il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, alla restituzione personale e professionale, nonché all'onore, al prestigio ed alla dignità professionale che quantificava in euro 120.000».

    1.1.— Il rimettente sottolinea, sul piano della rilevanza, che il censurato art. 3, comma 7, trova applicazione nel caso di specie.

    La norma impugnata precluderebbe, infatti, l'accoglimento della domanda proposta, di condanna dell'amministrazione al ripristino delle originarie funzioni svolte dal ricorrente, ovvero della domanda di risarcimento del danno derivante dalla risoluzione anticipata del contratto stipulato tra le parti.

    Assumerebbe, altresì, rilevanza la questione relativa alla legittimità costituzionale della norma di cui all'art. 3, comma 1, lettera b), nella parte in cui stabilisce il limite massimo triennale di durata degli incarichi in esame, in quanto «tale disposizione, anche se fosse dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 3, comma 7, della legge citata, comunque impedirebbe il ripristino dei rapporti cessati, proprio a causa della maggiore durata degli incarichi stabilita convenzionalmente».

    Il rimettente sottolinea, inoltre, come il quadro normativo abbia subito una ulteriore modifica a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 14-sexies del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168, il quale ha reintrodotto per gli incarichi in esame una durata minima, fissata in tre anni, e ha aumentato la durata massima a cinque anni. Tale disposizione non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie, né – aggiunge il rimettente – «appaiono prospettabili interpretazioni diverse della norma che consentano il riconoscimento al ricorrente della ricostituzione del rapporto in sede di riassegnazione dell'incarico. La norma, infatti, prevede univocamente l'avvicendamento negli incarichi di dirigente generale».

    1.1.1.— In relazione al giudizio di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente sottolinea come «il sistema normativo sopra delineato» sarebbe in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione.

    La normativa in esame ha previsto una tantum la cessazione automatica degli incarichi anche per i dirigenti generali allo scadere del sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002. Tale ipotesi di risoluzione automatica consentirebbe di fatto al solo Governo in carica «di provvedere alla nomina di personale di propria fiducia da collocare al vertice di tutti gli uffici».

    «L'impianto normativo preso in esame» si porrebbe inoltre in contrasto con il principio, riconosciuto da questa Corte con la ordinanza n. 11 del 2002 e con la sentenza n. 313 del 1996, secondo cui il potere politico deve occuparsi della funzione di indirizzo politico e di controllo attraverso l'azione di Governo, mentre il potere amministrativo deve esercitare funzioni gestionali e amministrative attraverso i propri funzionari.

    Sul punto, il giudice a quo rileva come gli artt. 97 e 98 Cost. delineano «un complessivo statuto del dipendente pubblico sottratto ai condizionamenti politici».

    Il Tribunale rimettente riporta stralci dell'ordinanza n. 11 del 2002 della Corte nella parte in cui ha stabilito che «la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale è connotata da specifiche garanzie, mirate a presiedere il rapporto di impiego dei dirigenti generali, la cui stabilità non implica necessariamente la stabilità dell'incarico, che, proprio al fine di assicurare il buon andamento e l'efficienza della pubblica amministrazione, può essere soggetto alla verifica dell'azione svolta e dei risultati conseguiti».

    L'ordinanza sottolinea come l'art. 3, comma 7, consente la possibilità per l'amministrazione di non motivare la mancata riattribuzione dell'incarico e conseguentemente «di revocare gli incarichi in modo affatto arbitrario, all'ipotizzabile fine di ridistribuirli a dirigenti ritenuti più affidabili dal punto di vista della consonanza politica».

    Questa risoluzione automatica non tiene conto che anche i dirigenti generali in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2002, «pur avendo ricevuto l'incarico sotto la vigenza del precedente Governo», avrebbero ugualmente potuto perseguire «gli obiettivi posti dalla nuova autorità politica» con professionalità e competenza.

    Sempre secondo il giudice a quo, se fosse stata prevista la necessità di adozione di un atto formale di revoca conseguente ad un formale procedimento, sarebbe stato fugato il sospetto, sussistendo il rimedio della impugnazione dell'atto, che la cessazione automatica dell'incarico sia stata introdotta con l'intento di «garantire l'affidamento della gestione amministrativa a persone scelte per affinità politica».

    L'art. 3, comma 7, invece, contemplando una forma di risoluzione del rapporto non assistita da alcuna garanzia, si porrebbe in contrasto con quanto stabilito da questa Corte, la quale avrebbe «da tempo chiarito» che «l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile, comporta, non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo – assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio – a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso» (sentenza n. 313 del 1996).

    Il giudice a quo assume, inoltre, la violazione degli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., in quanto la norma impugnata, «prevedendo una deroga ingiustificata al principio di stabilità dei contratti di lavoro, sia pubblici sia privati», contravviene ai «principi della libera esplicazione della personalità professionale sul luogo del lavoro, della libertà negoziale, i quali possono essere sacrificati solo in presenza di doverose e ragionevoli motivazioni».

    Infine, si ravvisa «il contrasto con l'art. 3 Cost., laddove la norma prevede la cessazione dell'incarico ex lege per tutti i dirigenti generali, mentre prevede la conferma automatica per i dirigenti, in caso di mancata tempestiva rotazione degli incarichi», entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2002.

    1.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, depositando una memoria, nella quale ha, innanzitutto, sostenuto la irrilevanza della questione avente ad oggetto l'art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 145 del 2002 relativa alla durata solo triennale dell'incarico dirigenziale.

    Inoltre, la difesa erariale rileva che la stessa legge citata ha apportato consistenti modifiche al pregresso regime della dirigenza, di cui all'art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), stabilendo un vincolo maggiore tra obiettivi e direttive indicati dal Ministro ed il dirigente generale, collegando il mancato rinnovo dell'incarico o addirittura il recesso dal rapporto di lavoro al semplice mancato raggiungimento degli obiettivi o all'inosservanza delle direttive ministeriali, laddove nel regime precedente la sanzione era quella dell'assegnazione ad altro incarico e solo nel caso di mancato raggiungimento ripetuto o di gravi inosservanze di direttive era prevista l'esclusione dal conferimento di incarichi di livello dirigenziale per un periodo non inferiore a due anni.

    Alla luce del mutato quadro normativo la lesione degli artt. 97 e 98 della Costituzionale sarebbe insussistente.

    Infondata sarebbe, infine, anche la censura con cui il rimettente, dalla assunta posizione di uguaglianza tra dirigenti di livello generale (cui si riferisce la norma impugnata) e capi dipartimento e segretari generali, fa discendere la irragionevolezza della norma che sancisce la cessazione una tantum dell'incarico per i dirigenti generali allo spirare dei sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge.

    1.3.— Si è costituita la parte privata, depositando memoria, nella quale si ribadisce la correttezza della valutazione contenuta nell'ordinanza di rimessione sia in ordine alla rilevanza della questione, sia in relazione al merito.

    2.— Analoga questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale di Roma, con ordinanza del 14 dicembre 2005 (r.o. n. 38 del 2006), nel corso di un giudizio tra il dott. Gaetano Cuozzo e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, in relazione alle stesse norme (art. 3, commi 1, lettera b, e 7, della legge n. 145 del 2002) indicate nella precedente ordinanza, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 Cost.

    Il giudice a quo premette che il ricorrente aveva precedentemente proposto, ex artt. 669-bis e 700 cod. proc. civ., domanda cautelare in relazione alla nota prot. n. 11278/MR del 24 settembre 2002, nella parte in cui il MIUR non disponeva la conferma del predetto ricorrente nell'incarico dirigenziale precedentemente ricoperto, né l'attribuzione al medesimo di un incarico di funzione e di livello retributivo equivalente.

    Il ricorrente aveva chiesto, pertanto, la reintegra in via di urgenza nell'incarico precedentemente ricoperto prospettando la incostituzionalità dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui dispone la cessazione di tutti gli incarichi dirigenziali a decorrere dal sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della legge.

    Il giudice a quo sottolinea come il ricorrente avesse prospettato un vizio degli atti impugnati per invalidità derivata dalla incostituzionalità della norma in esame per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 70, 97 e 98 Cost.

    La domanda cautelare era stata respinta sia in prima istanza che in sede di reclamo.

    Successivamente il ricorrente aveva presentato domanda di dimissioni dal servizio «ritenendosi gravemente declassato e leso nella propria immagine professionale».

    Da qui la proposizione di un ricorso in via ordinaria con il quale si assumeva la illegittimità costituzionale del citato art. 3, comma 7, nonché dell'art. 3, comma 1, lettera b). All'esito “positivo” del giudizio costituzionale sulle norme suddette, il ricorrente chiedeva che il Ministero venisse condannato al risarcimento del danno subito in conseguenza: a) delle dimissioni per giusta causa; b) del demansionamento subito, (anche) con conseguente danno biologico; c) della perdita di chance nell'accesso ad incarichi dirigenziali al compimento del 67° anno di età; d) della lesione della propria reputazione personale e del proprio prestigio e dignità professionale a seguito del mancato ed immotivato reincarico; e) della minore retribuzione pensionistica ottenuta.

    2.1.— Ciò precisato, il Tribunale rimettente osserva come la questione relativa all'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 sarebbe rilevante nel giudizio a quo, atteso che l'accoglimento di tale questione renderebbe illegittimo il provvedimento di revoca dell'incarico con conseguente incidenza sulla «delibazione della domanda risarcitoria».

    Altrettanto rilevante sarebbe la questione relativa all'art. 3, comma 1, lettera b), della citata legge nella parte in cui impone la durata massima triennale degli incarichi.

    Il Tribunale sottolinea, inoltre, che l'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005 – che ha reintrodotto per gli incarichi in esame una durata minima, fissata in tre anni, e ha aumentato la durata massima a cinque anni – non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie. Ne conseguirebbe la permanente rilevanza della questione sollevata in quanto nella fattispecie in esame si tratterebbe di un “vecchio incarico” al quale non sarebbe garantita alcuna durata minima contrariamente a quanto ora previsto dal citato art. 14-sexies.

    2.1.1.— Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo motiva, innanzitutto, la violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione, assumendo che la cessazione automatica lederebbe «i principi di imparzialità e di servizio esclusivo dei pubblici impiegati a favore della Nazione».

    Inoltre, non sarebbe ragionevole ritenere che i dirigenti generali in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2002, pur «avendo ricevuto l'incarico sotto la vigenza del precedente Governo», non abbiano perseguito «gli obiettivi posti dalla nuova autorità politica» con professionalità e competenza.

    In relazione alla censura di violazione dell'art. 3 Cost. si assume che la cessazione una tantum degli incarichi determinerebbe per i dirigenti generali un trattamento deteriore rispetto a quello di regola riservato a tutti gli altri lavoratori, pubblici o privati, per i quali sono previsti meccanismi di tutela a garanzia dell'immotivato e ingiustificato recesso dal contratto. Si aggiunge che, «se la “ratio” della deroga alle garanzie dirigenziali risiede nell'esigenza di continuità dei livelli decisionali, non si giustifica l'uniformità di regimi tra dirigenti generali e capi dipartimento, segretari generali e figure equivalenti, rappresentando queste ultime categorie il vero anello di congiunzione tra la sfera politica e quella amministrativa» (si richiama la sentenza n. 313 del 1996).

    Infine, per quanto attiene alle doglianze relative al contrasto con gli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., si sottolinea come la deroga ingiustificata al principio di stabilità dei contratti di lavoro, sia pubblici sia privati, violerebbe «i principi della libera esplicazione della personalità professionale sul luogo del lavoro, della libertà negoziale», i quali possono essere sacrificati solo in presenza di doverose e ragionevoli motivazioni.

    2.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri depositando una memoria dal contenuto analogo a quella fatta pervenire nel giudizio di cui all'ordinanza n. 547 del 2006.

    2.3.— Si è costituita in giudizio la parte privata, che ha ribadito la rilevanza della questione e si è soffermata sulle caratteristiche di continuità della legge n. 145 del 2002 rispetto al regime previgente, mettendo in evidenza come gli elementi di rottura rispetto a tale regime sarebbero rappresentati dalla riduzione della durata massima degli incarichi e dalla eliminazione della durata minima.

    3.— L'art. 3, commi 1, lettera b), e 7, è stato, altresì, oggetto di censura da parte del Tribunale di Roma, con ordinanza del 1° febbraio 2006 (r.o. n. 157 del 2006), per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97 e 98 Cost., nel corso di un giudizio promosso dal dott. Claudio De Giuli nei confronti del Ministero della salute.

    Il rimettente, in via preliminare, espone che con ricorso ex artt. 669-octies e 414 cod. proc. civ. l'interessato ha dedotto di avere ricoperto l'incarico di direttore della Direzione generale della programmazione sanitaria con contratto a tempo determinato stipulato in data 23 febbraio 2001 e rinnovato con atto di conferimento del 23 marzo 2001, mediante la stipula di un contratto avente durata fino al 31 dicembre 2007. Durante l'espletamento dell'incarico il ricorrente non ha ricevuto nessuna contestazione in ordine alla inosservanza di direttive generali e mancato raggiungimento di risultati. A fronte della comunicazione orale dell'amministrazione di volergli conferire, in applicazione dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, un incarico di studio della durata di un anno, il ricorrente ha sottoscritto, in data 2 ottobre 2002, il relativo contratto con riserva. La stessa amministrazione «ha proposto l'attribuzione» dell'incarico di direzione dell'ufficio dirigenziale prima ricoperto dall'interessato ad altro funzionario e ha «illegittimamente» assegnato quasi tutti gli altri incarichi per i restanti posti di funzione dirigenziale di livello equivalente. A seguito di ricorso d'urgenza ex art. 700 cod. proc. civ. il Tribunale di Roma ha ordinato al Ministero della salute di attribuire al ricorrente l'incarico di direttore del Servizio del controllo interno o altro incarico equivalente. L'interessato ha dedotto, sottolinea sempre il giudice rimettente, la incostituzionalità dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 70, 97 e 98 Cost.

    Sulla base di queste premesse, il ricorrente ha chiesto la condanna del Ministero della salute al suo ripristino nelle originarie funzioni, con ulteriori domande prospettate in «via subordinata» e riportate nelle ordinanze.

    Il Tribunale rimettente, dopo avere sottolineato le complessive novità recate dalla legge n. 145 del 2002 rispetto al previgente sistema, sottolinea come il “nuovo” testo dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 presenti, rispetto alla previgente formulazione, un elemento di continuità rappresentato dalla permanenza dei due fondamentali caratteri della temporaneità degli incarichi e dell'assegnazione degli stessi a seconda della valutazione degli obiettivi e dei risultati raggiunti. La «differenza significativa» tra le due discipline sarebbe rappresentata dall'abbassamento della soglia temporale di durata massima (da sette a tre anni) degli incarichi dirigenziali di livello generale, nonché «soprattutto» dalla «mancata previsione della durata minima degli incarichi (prima biennale ed ora possibile eventualmente per periodi temporali molto limitati, inferiori all'anno: in ipotesi anche per un solo mese)».

    3.1.— Il giudice a quo – dopo avere richiamato i principi esposti dalla Corte nella ordinanza n. 11 del 2002 – ritiene sussistente la rilevanza della questione relativa al citato art. 3, comma 1, lettera b), atteso che la richiesta avanzata in via principale dal ricorrente, volta ad ottenere la integrale reviviscenza dell'incarico originario, anche con riferimento alla durata dello stesso, potrebbe risultare non accoglibile ove si ritenesse applicabile alla fattispecie il limite triennale della durata massima dell'incarico «fissato da una norma imperativa di legge sopravvenuta al contratto originario e suscettibile, come tale, di conformarlo quanto alla durata».

    Né potrebbe incidere sulla predetta rilevanza il sopravvenuto art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005, con il quale è stata prevista una durata minima di tre anni, atteso che la sua non applicabilità ai giudizi in corso, da un lato, discende da quanto espressamente previsto dal secondo comma dello stesso articolo, dall'altro, dal principio generale di irretroattività della legge di cui all'art. 11, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale. Tale norma, piuttosto, introducendo un principio di relativa stabilità triennale dei dirigenti evidenzierebbe ancora di più «il deteriore ed ingiustificato trattamento» riservato al ricorrente ed agli altri dirigenti generali cessati ope legis dall'incarico per il quale non era prevista durata minima alcuna.

    3.1.1.— In relazione alla non manifesta infondatezza, il rimettente sottolinea come le norme impugnate consentano all'amministrazione di revocare gli incarichi in modo arbitrario per ridistribuirli «ai dirigenti ritenuti più affidabili dal punto di vista della consonanza politica». Inoltre, i dirigenti in esame si troverebbero in una condizione di debolezza «indotta dal termine di scadenza triennale (o anche minore) dell'incarico dirigenziale, termine più breve di quello dell'ordinaria durata in carica del Governo».

    Da qui la violazione degli artt. 97 e 98 Cost., i quali – prevedendo «per i pubblici dipendenti il dovere di imparzialità, l'accesso di regola mediante concorso, la determinazione delle sfere di competenza, delle attribuzioni e delle responsabilità, l'obbligo del servizio della Nazione, il divieto per i dipendenti pubblici membri del Parlamento di conseguire promozioni se non per anzianità, la possibilità di limitazioni all'iscrizione ai partiti politici – recano un complessivo statuto del dipendente pubblico sottratto ai condizionamenti politici».

    Il Tribunale rimettente fa riferimento, altresì, alla sentenza n. 193 del 2002, con cui questa Corte ha affermato che il maggiore rigore nella responsabilità dei dirigenti comporta anche una esigenza di rafforzamento della posizione degli stessi attraverso, tra l'altro, la previsione di adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e nella osservanza delle direttive ministeriali.

    Le norme impugnate, si sottolinea nell'ordinanza, si porrebbero in contrasto con i citati artt. 97 e 98 della Costituzione, in quanto «vi è il fondato pericolo che i dirigenti generali – necessariamente sottoposti alla riconferma da parte dello stesso vertice politico che li ha nominati e con scarse possibilità di una valutazione obiettiva dei risultati della gestione in relazione all'insussistenza di un termine minimo dell'incarico – siano portati alla ricerca di un improprio “gradimento” politico più che all'imparziale gestione ai fini del buon andamento dell'attività amministrativa. In tal modo, in sostanza, i dirigenti cessano di essere al servizio della Nazione e viene meno il principio costituzionale di imparzialità e di buon andamento dell'attività amministrativa».

    In definitiva, le norme censurate consentirebbero che «gli incarichi siano assegnati non sulla base dei risultati raggiunti ma su una affinità politica – definita come fiducia – fra Ministro e dirigente, in assenza di qualsiasi motivazione e di altra garanzia procedimentale».

    Siffatta relazione di consonanza tra vertice politico e dirigenza finisce, sempre nella prospettiva del rimettente, per determinare la violazione del principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, sottesi alle indicate norme costituzionali, in quanto «appare verosimile che il dirigente, al fine di guadagnare la riconferma da parte del vertice politico che l'ha nominato, tenda ad ottemperare ad ogni richiesta». In tal modo, «il Ministro consegue di fatto un'impropria potestà gestionale, non prevista dalla legge ed anzi non bilanciata dalle correlative responsabilità – amministrative, contabili e penali – che comunque permangano in capo al dirigente quale titolare formale della stessa».

    Inoltre, il Tribunale rimettente sottolinea che se l'amministrazione fosse stata “abilitata” a riconsiderare gli incarichi «utilizzando gli ordinari strumenti provvedimentali o contrattuali il dirigente avrebbe potuto avvalersi delle tutele proprie di tali strumenti e, segnatamente, di quelle discendenti dal generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi». La diversa soluzione adottata dalla legge n. 145 del 2002 «finisce per evidenziare un improprio utilizzo dello strumento legislativo per conseguire effetti propri di un atto amministrativo (appunto la revoca dell'incarico dirigenziale) con la conseguenza di privare il lavoratore di ogni tutela ed in violazione degli artt. 70 e 97, primo e secondo comma, Cost.».

    La cessazione ex lege degli incarichi dirigenziali non potrebbe neanche trovare una sua giustificazione nella necessità di applicare la nuova disciplina della dirigenza prevista dalla legge n. 145 del 2002. Tale giustificazione, infatti, «sembra mal accordarsi, da un lato, con il dato fattuale (…) della perdurante insussistenza di validi controlli sull'operato dei dirigenti» e, dall'altro, con la «sostanziale continuità delle linee-guida del nuovo rapporto di lavoro della dirigenza, e cioè mobilità (in virtù della temporaneità delle funzioni e della rotazione degli incarichi) e responsabilità (mediante individuazione di funzioni proprie dei dirigenti, il cui esercizio sia valutabile, con conseguente selezione per merito e non per anzianità) quali connotati che permangono anche nella nuova disciplina posta dalla legge n. 145 del 2002»; rimane, si sottolinea, il cardine della temporaneità degli incarichi dirigenziali, sia pure con diminuzione della loro durata massima e, soprattutto, con abrogazione della previsione sulla durata minima».

    La nuova disciplina avrebbe, pertanto, potuto essere attuata, al fine di non «ingenerare dubbi di costituzionalità per violazione degli artt. 3, 97 e 98 Cost.», attraverso la riduzione degli incarichi e dei contratti alla nuova durata massima di tre anni o mediante la verifica degli stessi incarichi e contratti alla luce degli eventuali nuovi programmi o obiettivi fissati dal vertice politico.

    Invece, «l'assenza di una durata minima dell'incarico dirigenziale e la previsione (…) di una più ristretta durata massima non pare consentire, di fatto, una reale valutazione dell'operato del dirigente il quale, in assenza di criteri obiettivi, non può che essere scelto in virtù di consonanze politiche e ritrovarsi poi esposto – in base alla medesima logica fiduciaria – ad un meccanismo di reiterazione di incarichi brevi».

    Il rimettente assume, inoltre, come le norme impugnate non rispettano il principio generale sulla stabilità dei contratti, in violazione degli artt. 2, 3, 4, 35, 36 e 97 Cost., in quanto il datore di lavoro pubblico può «porre nel nulla i contratti di cui si è parte mediante la legge, così utilizzando lo strumento legislativo ovvero contrattuale secondo convenienza, mentre il lavoratore rimane privo di qualsiasi tutela».

    Inoltre, la legge prevede che al dirigente decaduto sia attribuito un incarico “equivalente”, ove detta equivalenza, secondo il rimettente, sarebbe riferibile soltanto al trattamento economico, «ovvero un incarico di studio di durata non superiore ad un anno, alla fine del quale al dirigente, di fatto non più valutabile in relazione al raggiungimento di obiettivi gestionali, sembrerebbero preclusi ulteriori incarichi operativi». Tale assetto «appare suscettibile di configurare un demansionamento del dirigente al quale sia stato conferito l'incarico di studio (…) in violazione ancora degli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. per lesione dei principi, pure di rango costituzionale, della libertà negoziale e della personalità professionale del lavoratore la cui compressione può giustificarsi solo in base ai criteri di ragionevolezza, peraltro nella specie di ardua ricognizione».

    Infine, si assume la violazione dell'art. 3 Cost., in quanto non sembra potersi giustificare la distinzione tra dirigenti generali, cessati dall'incarico ex lege, e dirigenti per i quali è, invece, prevista la conferma automatica in caso di mancata tempestiva rotazione degli incarichi, debitamente motivata ed alle condizioni previste dal contratto collettivo.

    3.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, svolgendo le considerazioni già proposte nei giudizi di cui alle ordinanze numeri 547 e 38 del 2006.

    3.3.— Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio a quo, il quale riprende le argomentazioni già contenute nell'ordinanza di rimessione.

    4.— Con ordinanza dell'11 marzo 2006 (r.o. n. 158 del 2006) il Tribunale di Roma, nel corso di una controversia di lavoro introdotta dalla dott.ssa Elisabetta Midena nei confronti del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 3, commi 1, lettera b), e 7, della legge n. 145 del 2002, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 70, 97 e 98 della Costituzione.

    Il giudice a quo premette che la ricorrente ha stipulato, in data 8 gennaio 2001, con l'allora Ministro della pubblica istruzione un contratto a tempo determinato di cinque anni avente ad oggetto il conferimento di un incarico di direzione di un ufficio di livello dirigenziale generale, nella specie, direttore generale per le relazioni internazionali.

    In data 25 settembre 2002, l'amministrazione proponeva l'attribuzione dell'incarico precedentemente ricoperto dalla ricorrente ad altra funzionaria. In pari data, l'amministrazione procedeva ad attribuire tutti gli incarichi relativi ai restanti posti di funzione dirigenziale di livello equivalente all'incarico originariamente attribuito alla ricorrente. Quest'ultima agiva, quindi, in giudizio eccependo la incostituzionalità dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 e chiedendo la condanna del Ministero dell'istruzione al ripristino delle originarie funzioni, prospettando altresì richieste «in via subordinata». In ogni caso chiedeva la condanna del Ministero stesso a corrispondere la retribuzione originariamente pattuita.

    4.1.— Il giudice a quo, dopo avere svolto la suddetta premessa, riprende sostanzialmente le argomentazioni dell'ordinanza del 4 novembre 2005, sopra riportate, per sostenere la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione.

    4.2.— Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, depositando memoria. Tale memoria è di contenuto identico a quella depositata nel giudizio di cui all'ordinanza n. 547 del 2006.

    4.3.— Si è costituita in giudizio l'interessata, con atto che riprende sostanzialmente il contenuto degli atti depositati dalle altre parte privati in relazione alle ordinanze di rimessione sin qui riportate.

    5.— Il Tribunale di Roma, con le ordinanze di seguito indicate, ha riproposto questione di legittimità costituzionale delle norme in esame a seguito della restituzione degli atti disposta dalla Corte costituzionale con la ordinanza n. 398 del 2005 per il sopravvenuto mutamento del quadro normativo determinato dall'emanazione dell'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005.

    6.— Con ordinanza del 18 gennaio 2006 (r.o. n. 107 del 2006) la questione di legittimità costituzionale delle predette disposizioni, in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 della Costituzione, è riproposta nel corso del giudizio vertente tra il dott. Michele Calascibetta e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca.

    Secondo il rimettente, la predetta norma non sarebbe applicabile alla fattispecie concreta in quanto l'incarico dirigenziale conferito all'interessato «è scaduto proprio per effetto» della citata disposizione.

    Il giudice a quo ritiene, pertanto, che la sopravvenienza normativa non è idonea ad incidere sulla rilevanza della questione sollevata né sui profili di non manifesta infondatezza della stessa.

    Ad avviso del Tribunale rimettente, l'emanazione dell'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005 renderebbe ancora più evidente il vizio di incostituzionalità delle norme censurate, in quanto tale disposizione avrebbe ripristinato il principio di stabilità degli incarichi dirigenziali venuto meno per effetto dell'art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 145 del 2002 che aveva eliminato la durata minima biennale e diminuito la durata massima a tre anni.

    Alla luce di queste premesse il giudice a quo assume che «il giudizio di non manifesta infondatezza già sottoposto all'esame della Corte con riferimento alla previsione legale della cessazione automatica dell'incarico dirigenziale disposta a prescindere da ogni valutazione delle attitudini e della capacità professionale nonché dal raggiungimento degli obiettivi prefissati e dei risultati ottenuti deve pertanto essere integralmente riproposto».

    La declaratoria di incostituzionalità delle norme impugnate consentirebbe il ripristino dell'incarico dirigenziale affidato al ricorrente e cessato ex lege, con possibilità che lo stesso prosegua fino alla naturale scadenza.

    6.1.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, depositando una memoria di contenuto sostanzialmente analogo a quelle depositate nei giudizi di cui alle precedenti ordinanze.

    6.2.— Si è costituita in giudizio la parte privata sottolineando, in via preliminare, che il rimettente ha puntualmente valutato il ius superveniens costituito dall'art. 14-sexies del citato decreto-legge n. 115 del 2005, pervenendo alla conclusione che esso non abbia alcun rilievo nel giudizio principale.

    7.— Con altra ordinanza del 1° febbraio 2006 (r.o. n. 97 del 2006), emessa nel procedimento vertente tra la dott.ssa Rossana Rummo e il Ministero per i beni e le attività culturali, il Tribunale di Roma ha riproposto questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 1, lettera b), e 7, della legge in esame, in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97 e 98 della Costituzione.

    Anche il giudice rimettente assume che l'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005 non influisca sulla questione di legittimità costituzionale «come a suo tempo sollevata e segnatamente con riguardo all'art. 3, comma 1, lettera b)», in quanto, da un lato, il secondo comma dello stesso art. 14-sexies prevede la sua non applicabilità al giudizio in corso, dall'altro, il principio generale di irretroattività della legge di cui all'art. 11, primo comma, disp. prel. cod. civ. non consentirebbe di attribuire rilevanza a tale sopravvenienza normativa.

    Secondo il Tribunale rimettente, anzi, la disposizione in esame, introducendo un principio di relativa stabilità triennale dei dirigenti, accentuerebbe il deteriore ed ingiustificato trattamento subito dalla ricorrente per la quale la normativa impugnata ha disposto la cessazione dall'incarico automatica e ciò a prescindere da ogni valutazione di attitudini e capacità professionali, nonché dal raggiungimento degli obiettivi prefissati e dai risultati acquisiti.

    Inoltre, il giudice a quo sottolinea come l'art. 14-sexies «disponendo per i (nuovi) incarichi una necessaria correlazione tra durata minima triennale e massima quinquennale, si pone in antitesi con la previgente disciplina caratterizzata dalla sensibile riduzione della durata massima e dall'assenza di un termine minimo di durata dell'incarico dirigenziale, punto focale della sollevata questione di legittimità costituzionale per l'effetto di c.d. precarizzazione di fatto della dirigenza pubblica».

    Alla luce della considerazioni che precedono, il giudice a quo conclude nel senso che «permane il giudizio di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione nei termini di cui all'ordinanza di rimessione del 30 aprile 2004».

    7.1.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, depositando una memoria di contenuto sostanzialmente analogo a quella depositata nel giudizio di cui all'ordinanza n. 107 del 2006.

    7.2.— Si è costituita in giudizio l'interessata, la quale ha depositato un atto contenente argomentazioni analoghe a quelle contenute nella ordinanza n. 107 del 2006.

    8.— Infine, il Tribunale di Roma ha riproposto, nel giudizio vertente tra l'ing. Eugenio Ceccotti e l'Istituto per lo Sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, con ordinanza del 3 marzo 2006 (r.o. n. 159 del 2006), la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 in riferimento agli artt. 2, 3, 33, 41, 70, 97 e 113 della Costituzione.

    In relazione al ius superveniens rappresentato dall'art. 14-sexies del decreto- legge n. 115 del 2005, il giudice a quo sottolinea di non aver sollevato alcuna questione relativa al predetto art. 3, comma 1, lettera b), non censurando l'assenza di una durata minima degli incarichi (reintrodotta dalla novella) e l'insufficienza della durata massima (elevata dalla novella), «sul rilievo che la prima fosse irrilevante nel giudizio (perché l'attore aveva un incarico quinquennale di “vecchio regime” e si duole della sua cessazione “ex lege”, rivendicando i diritti che discendevano da quel contratto fino alla scadenza ed il risarcimento del danno derivante dalla sua illecita anticipata cessazione); e la seconda manifestamente infondata».

    Il Tribunale aggiunge come la reintrodotta durata minima degli incarichi non si applichi alla fattispecie sottoposta al suo esame, sia per espressa previsione del secondo comma dell'art. 14-sexies, sia perché tale aspetto non riguarderebbe la posizione del ricorrente il quale era titolare, da epoca precedente all'entrata in vigore della legge n. 145 del 2002, di un incarico di durata pari a quella oggi prevista come massima, cessato, però, automaticamente per legge, in virtù di quanto disposto dall'art. 3, comma 7, della citata legge.

    8.1.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri depositando una memoria di contenuto analogo a quello delle memorie depositate negli altri giudizi relativi alla stessa norma.

    8.2.— Si è costituito in giudizio l'interessato, il quale ha depositato memoria difensiva.

    9.— Nell'imminenza dell'udienza pubblica l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato un'unica memoria per tutti i giudizi, riprendendo parte delle argomentazioni già contenute negli atti di intervento.

    9.1.— Anche le parti private dei giudizi a quibus hanno depositato ulteriori memorie.


 

Considerato in diritto

    1.— Il Tribunale di Roma, con le sette ordinanze indicate in narrativa, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera b), e comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato), per violazione, nel complesso, degli artt. 1, 2, 3, 4, 33, 35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione.

    Innanzitutto, i rimettenti censurano l'art. 3, comma 7, nella parte in cui è disposta la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della legge stessa. Tale questione viene ritenuta, con argomentazioni sostanzialmente analoghe, rilevante dai vari giudici a quibus, in quanto la norma censurata precluderebbe l'accoglimento delle richieste di ripristino delle originarie funzioni espletate dai ricorrenti ovvero delle domande risarcitorie derivanti dalla interruzione anticipata del rapporto.

    Gli stessi rimettenti, fatta eccezione per quanto attiene all'ordinanza n. 159 del 2006, assumono che sia, altresì, rilevante la questione concernente il comma 1, lettera b), del medesimo art. 3, nella parte in cui – modificando l'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – ha ridotto la durata massima degli incarichi dirigenziali in esame da sette a tre anni. Si sostiene, infatti, che, pure se fosse dichiarata la incostituzionalità del comma 7, la riduzione del predetto termine impedirebbe il ripristino dei rapporti cessati nella loro originaria consistenza temporale ovvero inciderebbe sulla misura del risarcimento del danno, attesa la maggiore durata degli incarichi stabilita convenzionalmente. In particolare, nella ordinanza n. 157 del 2006, si afferma che «il limite triennale della durata massima dell'incarico, fissato da una norma imperativa di legge sopravvenuta al contratto originario», è suscettibile, come tale, di conformarlo anche quanto alla durata.

    2.— Avendo i suddetti giudizi ad oggetto questioni sostanzialmente analoghe, se ne deve disporre la riunione ai fini della loro trattazione unitaria.

    3.— In via preliminare, occorre verificare se ed in quali limiti le questioni di costituzionalità sollevate dai rimettenti siano ammissibili.

    Devono, in primo luogo, essere esaminate le ordinanze numeri 97, 107 e 159 del 2006, con le quali i rimettenti hanno riproposto le questioni di legittimità costituzionale delle norme sopra indicate a seguito dell'ordinanza n. 398 del 2005, con cui questa Corte aveva loro restituito gli atti a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 14-sexies del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), inserito dalla legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, il quale ha reintrodotto, per gli incarichi in esame, una durata minima, fissandola in tre anni, e ha portato quella massima da tre a cinque anni. In particolare, con la citata ordinanza questa Corte ha ritenuto che «siffatta sopravvenuta modifica di una delle due norme censurate – pur se i nuovi limiti temporali non si applicano agli incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali resi vacanti prima della scadenza dei contratti dei relativi dirigenti per effetto della impugnata cessazione automatica – comporta comunque un rilevante mutamento del complessivo quadro normativo di riferimento da cui tutti i rimettenti hanno tratto argomentazioni in ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni riguardanti l'altra norma impugnata, ossia l'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002».

    Nella riproposizione delle predette questioni i giudici a quibus – dopo avere sottolineato che il citato art. 14-sexies non rileva ai fini della definizione dei rispettivi giudizi – hanno fatto rinvio, espressamente o implicitamente, alle motivazioni contenute nelle precedenti ordinanze di rimessione.

    3.1.— Le questioni così prospettate sono inammissibili.

    La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nell'affermare che non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di costituzionalità questioni motivate solo per relationem, dovendo il rimettente rendere esplicite in ciascuna ordinanza le ragioni per le quali ritenga rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata, mediante una motivazione autosufficiente, non sostituibile dal rinvio al contenuto di altre ordinanze, anche se emanate dallo stesso giudice nel medesimo giudizio (vedi, tra le altre, ordinanze n. 33 del 2006 e nn. 364 e 141 del 2005).

    3.2.— Devono essere, in secondo luogo, dichiarate inammissibili le questioni sollevate dai rimettenti, con le ordinanze numeri 38, 158 e 547 del 2006, in relazione all'art. 3, comma 1, lettera b), in quanto esse non contengono alcuna motivazione sulla non manifesta infondatezza delle stesse. Dalla lettura delle predette ordinanze emerge, infatti, che i giudici a quibus argomentano soltanto il contrasto dell'art. 3, comma 7, con gli evocati parametri costituzionali, omettendo di esplicitare i motivi che dovrebbero giustificare anche la caducazione delle disposizioni contenute nel comma 1, lettera b), del medesimo articolo.

    3.3.— Resta da stabilire, infine, se possa considerarsi ammissibile la questione di costituzionalità dell'art. 3, comma 1, lettera b), sollevata con l'ordinanza n. 157 del 2006.

    L'esame della disposizione censurata deve essere condotto, partitamente, sia con riferimento alla mancata fissazione di un termine minimo di durata degli incarichi dirigenziali, sia in relazione alla riduzione del termine massimo da sette a tre anni.

    Sotto entrambi i profili la questione è inammissibile.

    Quanto al primo aspetto, va considerato che il rimettente non è chiamato a fare applicazione nel giudizio a quo della disposizione nella parte in cui essa non prevede un termine minimo di durata dell'incarico dirigenziale, a suo tempo conferito al ricorrente. Né a giustificare il rinvio a questa Corte rileva il fatto che il giudice a quo ritenga di ricavare argomenti dalla norma stessa al fine di motivare la non manifesta infondatezza della questione relativa al comma 7 del medesimo art. 3, di cui il rimettente è chiamato, invece, a fare applicazione e che è, dunque, certamente rilevante nel giudizio medesimo.

    Anche sotto il secondo aspetto, non può ritenersi ammissibile la questione di costituzionalità sollevata con riferimento alla previsione, contenuta nella suindicata lettera b) del comma 1 dell'art. 3, nella parte in cui riduce da sette a tre anni il termine massimo di durata dell'incarico per i dirigenti generali. Ciò per due concomitanti ragioni: in primo luogo, perché il rimettente non ha adeguatamente motivato in ordine alla non manifesta infondatezza della questione stessa, con specifica indicazione delle ragioni per cui dovrebbe ritenersi incostituzionale la riduzione a soli tre anni della suddetta durata dell'incarico; in secondo luogo, perché ha omesso di indagare in ordine ad una possibile opzione interpretativa che consenta di attribuire alla norma in esame, introdotta dalla legge n. 145 del 2002, soltanto efficacia ultrattiva, con decorrenza, cioè, dalla data di entrata in vigore della legge citata e con conseguente applicazione della durata originaria ai contratti precedentemente stipulati. In definitiva, sulla base di tale possibile interpretazione adeguatrice, il nuovo termine massimo di durata potrebbe valere soltanto per gli incarichi attribuiti dopo l'entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002.

    4.— Alla luce delle considerazioni che precedono deve, pertanto, ritenersi che l'esame di merito delle censure formulate sia limitato alla sola questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della predetta legge, sollevata dal Tribunale di Roma con le ordinanze numeri 38, 157, 158 e 547 del 2006.

    5.— La questione è fondata.

    Allo scopo di inquadrare la problematica sollevata dai rimettenti nell'ambito della nuova disciplina della dirigenza statale, è necessario soffermarsi sugli aspetti rilevanti della complessa evoluzione legislativa che ha investito il settore in esame e, in particolare, sul rapporto tra politica e amministrazione.

    Occorre, al riguardo, partire dalla cosiddetta “prima privatizzazione” della dirigenza, allo scopo di verificare in quale modo si siano atteggiati, nel tempo, gli aspetti relativi alla distinzione funzionale delle competenze tra livello politico e livello burocratico e i profili strutturali connessi alla fonte di regolazione del rapporto di lavoro dei dirigenti, nonché alle modalità di disciplina degli incarichi dirigenziali. In altri termini, occorre esaminare come sia stata in concreto regolamentata la relazione tra vertice politico e dirigenti sul piano delle rispettive funzioni e come su di essa abbiano eventualmente inciso la contrattualizzazione del rapporto di servizio, l'introduzione del principio di temporaneità degli incarichi, nonché, infine, la previsione, che rileva in questa sede, della cessazione automatica ex lege degli incarichi stessi.

    6.— Come è noto, la legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), a suo tempo ha autorizzato l'Esecutivo a stabilire «con uno o più decreti, salvi i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti di cui agli articoli 1, primo comma, e 26, primo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e siano regolati mediante contratti individuali e collettivi» (art. 2, comma 1, lettera a).

    In attuazione della delega è stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che, in relazione al profilo strutturale di disciplina del rapporto, ha provveduto alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, superando, ad eccezione di taluni settori, il tradizionale regime pubblicistico e stabilendo l'applicazione della disciplina giuslavoristica di diritto privato (art. 2, comma 2), «ritenuta più idonea alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma» (sentenza n. 313 del 1996).

    Questo processo ha investito anche il settore della dirigenza: l'art. 2, comma 4, del citato d.lgs. n. 29 del 1993, nella sua versione originaria, escludeva, però, espressamente dalla contrattualizzazione del rapporto di impiego i «dirigenti generali».

    La riforma del 1993 ha, infatti, dettato una disciplina differenziata della dirigenza che ha preso le mosse proprio dalla diversità delle fonti di regolazione del rapporto.

    In particolare, l'art. 21 del citato d.lgs. ha stabilito che i dirigenti generali dovessero essere nominati «con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente» e che l'incarico fosse conferito a soggetti in possesso dei requisiti prescritti dal medesimo art. 21.

    L'«accesso alla qualifica» doveva avvenire «per concorso per esami» indetto dalle singole amministrazioni, ovvero per corso-concorso selettivo di formazione presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (art. 28).

    Dopo l'acquisizione della «qualifica», ai dirigenti generali in servizio presso l'amministrazione interessata sarebbero stati conferiti – con decreto del Ministro competente, sentito il Presidente del Consiglio dei ministri – «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2). Con la medesima procedura sarebbero stati attribuiti «gli incarichi di funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca di livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2).

    Ai dirigenti non generali, invece, la legge in esame ha autorizzato il conferimento – con decreto del Ministro, su proposta del dirigente generale competente – di «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale», con la possibilità dell'attribuzione di incarichi per l'esercizio della funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca «di livello dirigenziale» (art. 19, comma 3).

    Per quanto attiene alla scelta dei dirigenti, lo stesso art. 19, al comma 1, ha previsto che si dovesse tenere conto «della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione degli incarichi».

    6.1.— Con riferimento al profilo relativo al rapporto tra politica e amministrazione, la legge n. 421 del 1992, come è noto, ha autorizzato il Governo a prevedere: «la separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa; l'affidamento ai dirigenti – nell'ambito delle scelte di programma degli obiettivi e delle direttive fissate dal titolare dell'organo – di autonomi poteri di direzione, di vigilanza e di controllo, in particolare la gestione di risorse finanziarie attraverso l'adozione di idonee tecniche di bilancio, la gestione delle risorse umane e la gestione di risorse strumentali; ciò al fine di assicurare economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell'attività degli uffici dipendenti» (art. 2, comma 1, lettera g, numero 1).

    In attuazione di tale delega, l'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 ha previsto che ai dirigenti spettasse «la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo», con la precisazione della loro responsabilità per la gestione e per i relativi risultati.

    L'art. 14, comma 1, del medesimo d.lgs. ha, poi, stabilito che spetti al Ministro, anche sulla base delle proposte dei dirigenti generali, periodicamente, e comunque ogni anno, entro sessanta giorni dall'approvazione del bilancio: a) definire gli obiettivi ed i programmi da attuare, indicare le priorità ed emanare le conseguenti direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione; b) assegnare, a ciascun ufficio di livello dirigenziale generale, una quota-parte del bilancio dell'amministrazione, commisurata alle risorse finanziarie, riferibili ai procedimenti o subprocedimenti attribuiti alla responsabilità dell'ufficio, e agli oneri per il personale e per le risorse strumentali allo stesso assegnati.

    Il comma 3 del medesimo art. 14 ha previsto, inoltre, che «gli atti di competenza dirigenziale non sono soggetti ad avocazione da parte del Ministro, se non per particolari motivi di necessità ed urgenza, specificamente indicati nel provvedimento di avocazione».

    7.— Le innovazioni legislative introdotte negli anni 1997–1998 hanno, da un lato, completato, sul piano strutturale, il processo di contrattualizzazione del rapporto di impiego dei dirigenti, modificando rilevanti aspetti della previgente disciplina, in relazione anche alle modalità di svolgimento degli incarichi dirigenziali; dall'altro, hanno accentuato, sul piano funzionale, la distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori.

    In particolare, l'art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), ha previsto che si dovesse «estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche» (lettera a) e che il Governo dovesse attenersi «ai principi contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui all'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni».

    In attuazione della predetta legge delega sono stati emanati i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), che hanno modificato, in più parti, il d.lgs. n. 29 del 1993.

    7.1.— Con i citati decreti delegati è stato esteso il regime della contrattualizzazione ai dirigenti generali, i quali, pertanto, non sono più inclusi nell'ambito del personale che è, invece, rimasto disciplinato, in deroga alla regola della privatizzazione, secondo il previgente regime di diritto pubblico (vedi il nuovo art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993).

    La riforma del 1998 ha, inoltre, previsto «l'accesso alla qualifica di dirigente» esclusivamente a seguito di «concorso per esami» seguito dalla stipulazione del contratto di lavoro (art. 28), nonché l'iscrizione dei soggetti, in tal modo selezionati, nel «ruolo unico dei dirigenti» istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ed articolato in due fasce (art. 23); ed è al predetto ruolo unico che ciascuna amministrazione statale avrebbe dovuto rivolgersi per il conferimento dei relativi incarichi, determinando così la costituzione del rapporto di ufficio.

    In particolare, l'art. 19 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo modificato dai citati decreti, ha previsto tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l'organo politico.

    Innanzitutto, sono stati previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta degli incarichi dirigenziali “apicali”, conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della prima fascia del ruolo unico (art. 19, comma 3).

    Sono stati poi contemplati «gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della «prima fascia del ruolo unico o, in misura non superiore ad un terzo, ai dirigenti del medesimo ruolo unico» ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso di specifiche qualità professionali (comma 4). Ed è su tale tipologia di incarichi che vertono le disposizioni censurate in questa sede.

    Infine, sono stati previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell'ufficio di livello dirigenziale generale, ai dirigenti assegnati al suo ufficio» (comma 5).

    Gli stessi criteri di scelta dei soggetti cui conferire gli incarichi sono rimasti sostanzialmente immutati, anche in relazione alla vigenza del criterio della rotazione (art. 19, comma 1), con la puntualizzazione che non trova applicazione l'art. 2103 del codice civile.

    Detto ciò, va sottolineato che per tutti i predetti incarichi, per espressa previsione contemplata al comma 2 del novellato art. 19, è stato previsto il conferimento «a tempo determinato», in tal modo introducendosi, a livello legislativo, il principio di temporaneità degli incarichi, aventi «durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni con facoltà di rinnovo». La stessa disposizione ha puntualizzato che tale durata dovesse essere definita contrattualmente unitamente all'oggetto e agli obiettivi da conseguire.

    Quanto, poi, alla scadenza dell'incarico, si è stabilito, in mancanza di riconferma, il “collocamento in disponibilità” dell'interessato presso il ruolo unico. In particolare, secondo il comma 10 dello stesso art. 19, «i dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall'ordinamento».

    È stata anche sancita la cessazione dell'incarico come misura conseguente all'accertamento di una responsabilità dirigenziale. Il successivo art. 21, prima delle modifiche apportate dalla legge n. 145 del 2002, ha, infatti, stabilito che «i risultati negativi dell'attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi» avrebbero potuto comportare «la revoca dell'incarico (…) e la destinazione ad altro incarico». Il comma 2 dello stesso art. 21 ha, altresì, previsto che «nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente o di ripetuta valutazione negativa (…), il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi, di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni». Infine, quale terza tipologia di misura, si è disposto che «nei casi di maggiore gravità», riferiti alle fattispecie da ultimo menzionate, l'amministrazione avrebbe potuto recedere dallo stesso rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.

    7.2.— Quanto al momento funzionale relativo alle competenze gestionali dei dirigenti ed al rapporto di essi con gli organi politici, deve sottolinearsi come i citati d.lgs. nn. 80 e 387 del 1998, modificando, in parte, anche gli artt. 3 e 14 del d.lgs. n. 29 del 1993, abbiano «accentuato il principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di Governo e funzione di gestione e attuazione amministrativa dei dirigenti» (ordinanza n. 11 del 2002).

    In particolare, l'art. 3, a differenza della previgente formulazione, contiene una elencazione puntuale degli atti di competenza degli organi di Governo, con attribuzione ai dirigenti di una competenza generale e residuale.

    Il citato art. 14 ha, poi, chiaramente escluso che il Ministro possa «revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti», riconoscendo così esplicitamente che il rapporto tra politica e amministrazione non è più ricostruibile pienamente in termini di gerarchia, bensì di coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due livelli.

    8.— Il quadro normativo sin qui descritto – confluito, poi, nel d.lgs. n. 165 del 2001 – ha, in sostanza, delineato un modello articolato di regolamentazione della dirigenza.

    In sintesi, può dirsi che, con la suddetta riforma del 1997-1998, sul piano strutturale, è stata completata l'attuazione del processo di contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti ed è stato definitivamente introdotto il principio della temporaneità degli incarichi connessi al rapporto di ufficio.

    La disciplina legislativa, qui presa in esame, del lavoro dirigenziale – basato sul contratto di servizio su cui si innesta il predetto rapporto – ha, pertanto, determinato il definitivo passaggio da una concezione della dirigenza intesa come status, quale momento di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad una concezione della stessa dirigenza di tipo funzionale.

    Sul piano delle competenze, il legislatore – abbandonando il modello incentrato esclusivamente sul principio della responsabilità ministeriale, che negava, di regola, attribuzioni autonome ed esterne agli organi burocratici – ha fatto perno sulla distinzione tra il potere di indirizzo politico-amministrativo e l'attività gestionale svolta dai dirigenti. Tale netta distinzione ha, da un lato, ampliato le competenze dirigenziali, l'esercizio delle quali deve essere valutato tenendo conto, in particolare, dei risultati «dell'attività amministrativa e della gestione» (art. 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, recante «Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59»); dall'altro lato e conseguentemente, ha comportato un maggiore rigore nell'accertamento della responsabilità dei dirigenti stessi (sentenza n. 193 del 2002), che presuppone un efficace sistema valutativo in relazione agli obiettivi programmati.

    Analizzando i profili di possibile interferenza tra l'aspetto della distinzione funzionale dei compiti e quello strutturale relativo alla disciplina del rapporto, questa Corte ha già avuto modo di affermare – sia pure con riferimento ai dirigenti non generali, ma con enunciazioni estensibili anche a quelli di livello immediatamente superiore – che la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto stesso (sentenza n. 313 del 1996). Se così fosse, è evidente, infatti, che si verrebbe ad instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria.

    Di qui la logica conseguenza per la quale anche il rapporto di ufficio, sempre sul piano strutturale, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell'incarico, debba essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell'azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. Ciò al fine di consentire che il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell'incarico – in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.). In tale prospettiva, è, dunque, indispensabile, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (sentenza n. 193 del 2002 e ordinanza n. 11 del 2002), che siano previste adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell'osservanza delle direttive ministeriali finalizzate alla adozione di un eventuale provvedimento di revoca dell'incarico per accertata responsabilità dirigenziale.

    9.— In questo contesto si colloca la legge n. 145 del 2002, contenente le disposizioni impugnate.

    Tale legge, per quanto attiene al rapporto di servizio, ha ripristinato l'accesso alla qualifica mediante concorso per esame e corso-concorso selettivo di formazione ed ha abolito il ruolo unico, prevedendo il ruolo dei dirigenti per ciascuna amministrazione statale.

    Con riferimento al rapporto di ufficio, l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, come innovato dalla citata legge n. 145 del 2002, ha disposto, per i profili relativi ai criteri di conferimento dell'incarico, che si debba tenere conto, «in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro» (comma 1); è stato, inoltre, eliminato il riferimento, contenuto nella precedente formulazione della stessa disposizione, all'applicazione «di norma» del «criterio della rotazione degli incarichi».

    Inoltre, lo stesso art. 19, al comma 2, prevede che il «provvedimento di conferimento dell'incarico», e non il relativo contratto, individui «l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può eccedere», per gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale, che sono quelli che rilevano in questa sede, «il termine di tre anni»; alla fase di definizione consensuale rimane affidata unicamente la determinazione del corrispondente trattamento economico.

    Per quanto attiene ai criteri di accertamento della responsabilità dirigenziale e alle consequenziali misure adottabili, la nuova versione dell'art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che «il mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero l'inosservanza delle direttive» – valutati con i sistemi e le garanzie di cui al citato art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1999 – comportano «l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale». La medesima disposizione prevede che «in relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'art. 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo».

    9.1.— È, dunque, sulla base delle esposte considerazioni che emerge la fondatezza della censura con la quale i rimettenti hanno dedotto l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui si prevede che gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale «cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore» della legge stessa.

    Al riguardo va, innanzitutto, precisato che il citato comma 7 prevede due diversi meccanismi transitori di incidenza sul rapporto di ufficio, in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa, a seconda che vengano in rilievo incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale o non generale.

    In relazione a questi ultimi, non oggetto di contestazione, la norma prescrive che gli stessi possono essere sottoposti, entro novanta giorni dall'entrata in vigore della predetta legge, ad un giudizio di revisione e ridistribuzione «secondo il criterio della rotazione», con la specificazione che «decorso tale termine, gli incarichi si intendono confermati, ove nessun provvedimento sia stato adottato».

    Le censure dei giudici rimettenti si incentrano, come si è precisato, esclusivamente sull'altra parte del medesimo comma 7, il quale, in relazione agli «incarichi di funzione dirigenziale di livello generale», stabilisce che gli stessi cessano automaticamente il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge.

    Deve, dunque, essere ribadito, ai fini della delimitazione dell'ambito applicativo della normativa impugnata, che la questione proposta non riguarda la posizione dei dirigenti ai quali siano stati conferiti incarichi “apicali”, vale a dire quelli di maggiore coesione con gli organi politici (segretario generale, capo dipartimento e altri equivalenti).

    Le modalità di cessazione di quest'ultimi incarichi sono, infatti, contenute nel comma 8 dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, che è stato anch'esso oggetto di modifiche da parte della predetta legge n. 145 del 2002. La nuova disposizione, con previsione a regime, stabilisce che, tra l'altro, i suddetti incarichi «cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo».

    9.2.— Orbene, la norma impugnata – prevedendo un meccanismo (cosiddetto spoils system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge in esame – si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione.

    La suddetta disposizione, così formulata, infatti – determinando una interruzione, appunto, automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito – viola, in carenza di garanzie procedimentali, gli indicati principi costituzionali e, in particolare, il principio di continuità dell'azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell'azione stessa. Le recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, in precedenza illustrate, hanno, infatti, disegnato un nuovo modulo di azione che misura il rispetto del canone dell'efficacia e dell'efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita. È evidente, dunque, che la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l'attività del dirigente possa espletarsi in conformità al modello di azione sopra indicato.

    A regime, per i motivi sin qui esposti, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti, in questa sede presi in considerazione, può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato (sentenza n. 193 del 2002).

    Deve, pertanto, ritenersi necessario che – alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale prima richiamata – sia comunque garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall'altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall'organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato.

    L'esistenza di una preventiva fase valutativa si presenta essenziale anche per assicurare, specie dopo l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, il rispetto dei principi del giusto procedimento, all'esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall'organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell'attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell'azione amministrativa. Precetto, questo, che è alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l'azione di governo – che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l'azione dell'amministrazione, la quale, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione» (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall'ordinamento (in questo senso, sia pure con riferimento ad un ambito di disciplina diverso da quello in esame, vedi sentenza n. 453 del 1990, nonché sentenza n. 333 del 1993).

    Né può ritenersi, come sostenuto dall'Avvocatura dello Stato, che la norma in esame, data la sua natura transitoria, rinvenga la propria giustificazione nell'esigenza di consentire l'attuazione della riforma recata dalla legge n. 145 del 2002 per il tramite di un equilibrato passaggio da un sistema all'altro.

    Tale legge, come è emerso dall'analisi in precedenza svolta, pur apportando modifiche alla previgente disciplina, ne ha mantenuto sostanzialmente fermo l'impianto complessivo che si regge, nei suoi aspetti qualificanti, sulla scelta dei dirigenti guidata da criteri oggettivi, sulla temporaneità dell'incarico conferito, nonché su meccanismi di revoca dell'incarico stesso in presenza di peculiari profili di responsabilità dirigenziali. Ciò rende evidente come la disposizione censurata – a differenza di quanto affermato da questa Corte, in una diversa fattispecie, con la sentenza n. 233 del 2006, in relazione ad una norma concernente la dirigenza regionale (art. 2, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 12 agosto 2005, n. 27) dettata per «rendere immediatamente operativa la nuova disciplina» – non assolva ad alcuna funzione di disciplina transitoria volta a consentire l'attuazione di un innovativo sistema della dirigenza statale e dei rapporti di questa con gli organi politici e, dunque, ad agevolare un graduale ed armonico passaggio da uno ad altro ordinamento delle funzioni della dirigenza medesima.

    La scelta del legislatore, pertanto, all'esito di un giudizio complessivo di bilanciamento dei valori, non può essere giustificata dalla esigenza di permettere l'applicazione immediata delle norme sulla dirigenza nelle parti modificate dalla legge n. 145 del 2002, tanto più tenendo conto che la natura provvedimentale dell'atto legislativo impone, sotto il profilo della non arbitrarietà e della ragionevolezza delle scelte, un sindacato ancora più rigoroso (vedi, tra le altre, sentenza n. 153 del 1997). Del resto, se il fine perseguito fosse stato effettivamente quello di consentire l'avvio della riforma attuata dalla predetta legge, da un lato, non si spiegherebbe perché il legislatore abbia imposto la cessazione automatica ex lege ed una tantum dei soli incarichi dirigenziali di livello generale e non anche degli altri incarichi per i quali è previsto, come si è precisato, un diverso meccanismo di valutazione di quelli in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima; dall'altro, non troverebbe, allo stesso modo, una sua giustificazione l'adozione di una misura revocatoria ex lege non proporzionata all'obiettivo che si intendeva perseguire.

    La stessa inesistenza di un termine minimo di durata dell'incarico dirigenziale, ancorché la relativa disposizione – sotto questo aspetto – non formi oggetto dell'odierno scrutinio di costituzionalità per le ragioni precedentemente esposte, è indice di una possibile precarizzazione della funzione dirigenziale, che si presenta (quando il termine sia eccessivamente breve) difficilmente compatibile con un adeguato sistema di garanzie per il dirigente che sia idoneo ad assicurare un imparziale, efficiente ed efficace svolgimento dell'azione amministrativa.

    E non è senza significato, che, successivamente, con l'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005, il termine minimo di durata dell'incarico sia stato reintrodotto.

    9.3.— Deve, pertanto, essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 per contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione».

    Restano assorbite le altre censure prospettate dai rimettenti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    1) dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato), nella parte in cui dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione»;

    2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 1, lettera b), e 7 della predetta legge n. 145 del 2002, sollevate dal Tribunale di Roma con le ordinanze r.o. numeri 97, 107 e 159 del 2006, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 33, 35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione;

    3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera b), della predetta legge n. 145 del 2002, sollevate dal Tribunale di Roma con le ordinanze r.o. numeri 38, 157, 158 e 547 del 2006, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97, 98 della Costituzione.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2007.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI

 

 


SENTENZA N. 104

ANNO 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE            Presidente

- Giovanni Maria  FLICK             Giudice

- Francesco       AMIRANTE             "

- Ugo             DE SIERVO            "

- Romano          VACCARELLA           "

- Paolo           MADDALENA            "

- Alfio           FINOCCHIARO          "

- Alfonso         QUARANTA             "

- Franco          GALLO                "

- Luigi           MAZZELLA             "

- Gaetano         SILVESTRI            "

- Sabino          CASSESE              "

- Maria Rita      SAULLE               "

- Giuseppe        TESAURO              "

- Paolo Maria     NAPOLITANO           "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002); del combinato disposto dell'art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio) e dell'art. 71, commi 1, 3 e 4, lett. a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per l'esercizio finanziario 2005); del combinato disposto dell'art. 53, comma 2, e/o dell'art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1, e dell'art. 71, commi 1, 3 e 4, lett. a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9; dell'art. 43, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 28 aprile 2006, n. 4, recante «Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2006 (art. 11, legge regionale 20 novembre 2001, n. 25)»; rispettivamente promossi dal Tribunale di Palermo con ordinanza del 19 ottobre 2004; dal Consiglio di Stato, con sei ordinanze del 19 ottobre 2005 e con una ordinanza del 7 febbraio 2006; dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con ordinanza del 3 luglio 2006; iscritte ai numeri 589 del registro ordinanze 2005; 9, 10, 11, 12, 13, 14, 237 e 431 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell'anno 2005, e nn. 4, 29, 43, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visti gli atti di costituzione di Patrizio Valeri e Domenico Alessio, di Giuseppina Gabriele, di Benito Battigaglia e Carlo Mirabella, di Ernesto Petti, di Adolfo Pipino, Pietro Grasso e Luigi Macchitella, di Giancarlo Zotti, di Franco Condò, di Rosaria Marino, della Regione Lazio e della Regione Siciliana;

    udito nell'udienza pubblica del 6 marzo 2007 e nella camera di consiglio del 7 marzo 2007 il Giudice relatore Sabino Cassese;

    uditi gli avvocati Francesco Castiello e Mario Sanino per Patrizio Valeri e Domenico Alessio; Rosaria Russo Valentini per Giuseppina Gabriele, Adolfo Pipino, Pietro Grasso e Luigi Macchitella; Alfredo Zaza d'Aulisio per Benito Battigaglia e Carlo Mirabella; Corrado De Simone per Ernesto Petti; Diego Perifano per Giancarlo Zotti; Francesco Castiello e Guido De Santis per Franco Condò; Gennaro Terracciano e Luca Di Raimondo per la Regione Lazio.


 

Ritenuto in fatto

    1. – Il Consiglio di Stato ha sollevato, con sei ordinanze (r.o. nn. da 9 a 14 del 2006), questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell'articolo 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2005), e dell'articolo 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), in riferimento agli articoli 97, 32, 117, terzo comma, ultimo periodo, e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

    1.1. – La questione è insorta in giudizi d'appello avverso le ordinanze con le quali il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha respinto le domande di sospensione cautelare dei provvedimenti con i quali la Regione Lazio aveva dichiarato la decadenza dei ricorrenti dall'incarico di direttore generale di aziende sanitarie locali o di aziende ospedaliere e nominato i nuovi direttori generali; ciò, appunto, in applicazione del «combinato disposto» dell'art. 55, comma 4, dello statuto della Regione Lazio e dell'art. 71 della legge regionale n. 9 del 2005.

    L'art. 55 («Enti pubblici dipendenti») dello statuto regionale – dopo aver previsto che, con legge regionale, possono essere istituiti «enti pubblici dipendenti dalla Regione per l'esercizio di funzioni amministrative, tecniche o specialistiche, di competenza regionale» (comma 1) – stabilisce che «[i] componenti degli organi istituzionali decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio [regionale], salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina» (comma 4).

    In virtù dell'art. 71 («Disposizioni per la prima attuazione delle norme statutarie in materia di nomine e designazioni di competenza degli organi della Regione e degli enti dipendenti») della legge regionale n. 9 del 2005, «[n]elle more dell'adeguamento della normativa regionale» alla legge statutaria, le norme dello statuto regionale (fra le quali l'art. 55, comma 4) «concernenti la decadenza dalla carica di componente degli organi istituzionali degli enti pubblici dipendenti e la cessazione di diritto degli incarichi dirigenziali presso la Regione e gli enti pubblici dipendenti» si applicano, «anche in deroga alle disposizioni contenute nelle specifiche leggi vigenti in materia» (comma 1), «a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello statuto, degli organi di riferimento della Regione o degli enti pubblici dipendenti» (comma 3); in particolare, al fine di dare piena applicazione a quanto disposto (fra gli altri) dall'art. 55, comma 4, dello statuto, «nelle ipotesi in cui la carica di organo istituzionale di ente pubblico dipendente, anche economico, in atto alla data di entrata in vigore dello statuto, sia svolta mediante rapporto di lavoro regolato da contratto di diritto privato, la durata del contratto stesso è adeguata di diritto ai termini previsti dall'articolo 55, comma 4» (comma 4, lettera a), secondo cui – come detto – «[i] componenti degli organi istituzionali decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio [regionale], salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina».

    Il remittente non dubita che le controversie vadano ascritte alla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che i provvedimenti impugnati «sono chiara espressione di uno straordinario potere attribuito all'amministrazione regionale in ordine all'organizzazione degli enti da essa dipendenti, sulla base di una valutazione discrezionale circa la sussistenza dei presupposti di legge, a fronte del quale non sono ipotizzabili se non posizioni di interesse legittimo al suo corretto esercizio».

    In punto di rilevanza, il giudice, contrariamente alla prospettazione dei ricorrenti – secondo cui le Asl sarebbero «enti autonomi» e non già «dipendenti» della Regione, sicché le disposizioni regionali sopra riportate non sarebbero ad esse riferibili – ritiene che le Asl sono enti strumentali della Regione, con conseguente applicabilità delle norme censurate.

    Rilevato che le domande cautelari dei ricorrenti sarebbero carenti del prescritto requisito del fumus boni iuris e che l'appello cautelare dovrebbe essere rigettato, il giudice remittente sostiene che la normativa sulla quale si fondano i provvedimenti impugnati davanti al Tar del Lazio, e che egli dovrebbe applicare per rigettare l'appello cautelare, è sospetta di incostituzionalità sotto vari profili.

    Anzitutto, l'art. 71 della legge regionale n. 9 del 2005, nel disporre che l'art. 55 dello statuto regionale si applichi, «in deroga alle disposizioni contenute nelle specifiche leggi vigenti in materia», «a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello statuto, degli organi di riferimento della Regione», ricollegherebbe la cessazione dalla carica al rinnovo del Consiglio regionale, «con l'evidente finalità di consentire alle forze politiche di cui è espressione il nuovo Consiglio di sostituire i preposti agli organi istituzionali». Ne discenderebbe «una cesura nella continuità dell'azione amministrativa esplicata dal titolare della carica, non in dipendenza di una valutazione della qualità di questa [azione], ma di un evento oggettivo, qual è l'insediamento del nuovo Consiglio all'esito della consultazione elettorale», onde la norma regionale contrasterebbe con i principi costituzionali del buon andamento e dell'imparzialità dettati dall'art. 97 Cost. Inoltre, l'art. 55, comma 4, dello statuto regionale, per il modo in cui è stato attuato dall'art. 71 della legge regionale n. 9 del 2005, sarebbe comunque suscettibile di incidere, in mancanza di ogni «vaglio di rendimento (cfr. in proposito Corte cost. 16 maggio 2002 n. 193), [su] quella stabilità ed autonomia che consente al dirigente di improntare il suo operato al rispetto dei richiamati principi».

    In considerazione della circostanza che l'attività del direttore generale di azienda sanitaria locale si svolge nel settore della sanità e della tutela della salute, la normativa sarebbe, altresì, lesiva dei fondamentali obiettivi posti dall'art. 32 Cost.

    Le disposizioni censurate violerebbero, infine, un principio fondamentale della materia «tutela della salute» e, pertanto, contrasterebbero con l'art. 117, terzo comma, Cost. In particolare, dalla legislazione statale sarebbe ricavabile il principio fondamentale secondo cui al rapporto di lavoro dei direttori generali delle Asl dev'essere garantita una stabilità ed autonomia in misura «rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore regionale, ma comunque congrua per l'esercizio, da parte di tali funzionari, delle loro specifiche attribuzioni secondo i canoni […] di adeguatezza dell'azione amministrativa all'art. 97 Cost.». La menzionata normativa regionale, invece, introdurrebbe una condizione di precarietà di quel rapporto.

    Infine, la previsione della decadenza dalla carica esulerebbe, secondo il remittente, dalla competenza legislativa regionale, «in quanto, incidendo sulla disciplina del sottostante rapporto di lavoro, di cui determina la cessazione, si esplica in realtà nella materia dell'“ordinamento civile”, affidato dall'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. alla potestà legislativa esclusiva dello Stato».

    1.2. – Si sono costituite le parti private dei giudizi principali, alcune delle quali hanno presentato memorie.

    1.2.1. – Le difese dei ricorrenti nei giudizi a quibus sottolineano che le disposizioni denunciate, legando la cessazione dalla carica ad una circostanza – l'insediamento del nuovo Consiglio regionale – estranea alla valutazione dell'attività svolta dal direttore generale, violerebbero gli artt. 97 e 98 Cost.; inoltre, «provocando la destabilizzazione dell'assetto delle aziende sanitarie», sarebbero «in stridente contrasto con il sistema di cui l'art. 32 Cost. è la norma apicale», sistema costituito dal decreto legislativo n. 502 del 1992, che prevede una durata almeno triennale del rapporto di lavoro dei direttori generali delle aziende sanitarie, e dalla legge della Regione Lazio n. 18 del 1994, che assicura la stabilità del rapporto fino alla scadenza del contratto.

    Sarebbero altresì violati:

    l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto «la stabilità del rapporto tra l'azienda sanitaria e il suo direttore e l'efficiente cura del fondamentale interesse pubblico tutelato dall'art. 32 Cost. è presidiato anche dall'art. II-63, primo comma, del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa (29 ottobre 2004)»;

    «i principi desumibili dal combinato disposto degli artt. 32 e 98 Cost.», in quanto «il criterio delle spoglie appare obiettivamente non confacente al settore della sanità, considerato che le aziende sanitarie, erogando un servizio di pubblica necessità, devono perseguire i fondamentali obiettivi posti dall'art. 32 Cost. in condizioni di autonomia e di immunità dai condizionamenti da parte di questa o quella formazione politica, nel rispetto dell'art. 98 Cost. col quale il ridetto art. 32 si coniuga in un contesto logico-sistematico di necessario ed ineludibile riferimento»;

    l'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., in quanto la previsione della decadenza dalla carica dei direttori generali delle aziende sanitarie della Regione Lazio prima dello spirare del termine pattiziamente definito «incide con effetti rescissori sul rapporto di lavoro» e, quindi, su una materia, l'«ordinamento civile», che rientra nella potestà legislativa esclusiva dello Stato.

    1.2.2. – Le difese dei controinteressati nei giudizi a quibus eccepiscono l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza della questione.

    Sotto il primo profilo, si sostiene che il giudice remittente, da una parte, ha omesso di ricercare una possibile interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sospettate di incostituzionalità; dall'altra, è incorso in una «evidente contraddittorietà» di motivazione circa la sussistenza della propria giurisdizione, laddove confonde l'insediamento del nuovo Consiglio regionale, che determina l'automatica cessazione dalla carica, con l'esercizio di «una valutazione discrezionale circa  la sussistenza dei presupposti di legge», a fronte della quale sussisterebbero unicamente posizioni di interesse legittimo tutelabili davanti al giudice amministrativo.

    Quanto alla non manifesta infondatezza, la difesa osserva, anzitutto, che il giudice remittente, nel ricollegare la violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dettati dall'art. 97 Cost. all'assenza di «ogni vaglio di rendimento» del direttore generale, finisce per trasferire nell'istituto dell'automatica decadenza dall'incarico un'impostazione che appartiene alla fattispecie – tutt'affatto diversa da quella in esame – relativa alla decadenza regolata dall'art. 3-bis, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della Legge 23 ottobre 1992, n. 421), che consegue alla valutazione di «gravi motivi», all'accertamento di «una situazione di grave disavanzo» o, ancora, alla «violazione di leggi o del principio di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione»; dunque, all'esistenza di situazioni o al verificarsi di comportamenti che si configurano come inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte.

    Nemmeno sussisterebbe la lesione dell'art. 32 Cost., non comprendendosi per quali ragioni la cessazione dall'incarico del direttore generale di un'Asl comporterebbe conseguenze negative in relazione ad una efficace tutela del diritto alla salute. Del resto, l'incarico di direttore generale è comunque a termine e la Regione ben può disporre, ricorrendone i presupposti (in applicazione dell'art. 3-bis, comma 7, del decreto legislativo n. 502 del 1992), la revoca del direttore generale prima della scadenza del termine contrattualmente previsto.

    Quanto, poi, alla lesione dell'art. 117, terzo comma, Cost., osserva la difesa che la violazione, da parte della Regione, di principi fondamentali nella materia di legislazione concorrente «tutela della salute» avrebbe dovuto essere illustrata attraverso la specifica indicazione delle norme di legge statale in ipotesi violate.

    D'altro canto, neppure sarebbe lesa la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile». Anche a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, infatti, alle regioni non è radicalmente precluso di legiferare in ordine ai rapporti lavorativi costituiti con il personale dipendente e con i dirigenti. Ciò in quanto, da una parte, le regioni sono dotate, in virtù dell'art. 117, quarto comma, Cost., di «poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale» (sentenza n. 2 del 2004); dall'altra parte, con specifico riguardo alla dirigenza, «la stessa legislazione statale […] non esclude una, seppur ridotta, competenza normativa regionale in materia» (sentenza n. 2 del 2004)». Infine, non parrebbe corretto far rientrare nella materia dell'«ordinamento civile» tutti i profili afferenti al rapporto lavorativo tra le regioni (e i loro enti strumentali) ed il relativo personale, attesa la qualificazione pubblicistica dei «numerosi aspetti dei rapporti privatizzati più strettamente legati a profili organizzativi dell'attività dell'amministrazione: tra i quali, in particolare, quelli concernenti la dirigenza» (sentenza n. 313 del 1996).

    1.3. – In tutti i giudizi si è costituita la Regione Lazio, contestando che la normativa regionale sia in contrasto con gli artt. 97, 32 e 117 Cost.

    Secondo la difesa della Regione, «l'introduzione del sistema della decadenza di diritto è la necessaria e logica conseguenza dell'evoluzione in direzione della eliminazione della stabilità del rapporto dei vertici delle amministrazioni, che ha caratterizzato le riforme normative del pubblico impiego degli ultimi anni». Il rapporto di lavoro dei più alti dirigenti delle amministrazioni è, infatti, mutato in ragione del «collegamento necessario» che, pur nella distinzione dei rispettivi ruoli, deve sussistere «tra l'attività di indirizzo politico affidata all'organo di governo e l'attività di prima traduzione di detto indirizzo in atti gestionali» ad opera dei dirigenti di vertice.

    In questa logica, l'art. 55 dello statuto regionale e la legge regionale n. 9 del 2005 non confliggono con alcuna norma o principio di rango costituzionale o comunitario, limitandosi ad istituzionalizzare ciò che era già principio generale e prassi nella Regione Lazio e in altre regioni, oltre che nell'amministrazione dello Stato: la nomina dei vertici amministrativi avviene «sulla base di una valutazione di alta amministrazione che non richiede una particolare motivazione, sempre che il nominato abbia i requisiti professionali per poter correttamente adempiere alle funzioni assegnate». Del resto, se è vero che «[g]li apparati burocratici costituiscono i principali strumenti per dare attuazione [a] politiche pubbliche coerenti con il mandato elettorale», «la prima esigenza dei vertici politici delle amministrazioni è quello di potersi dotare di una dirigenza capace, possibilmente scelta su base fiduciaria, che condivida le scelte e le priorità e si impegni nell'attuazione delle medesime senza frapporre ostacoli o indulgere in comportamenti ostruzionistici». Viceversa, «[l]a sostanziale inamovibilità del dirigente, che ha caratterizzato a lungo l'esperienza concreta del nostro ordinamento, non appare compatibile con questo modello», a maggior ragione «in seguito all'introduzione, nel corso degli anni Novanta, del meccanismo di elezione diretta dei vertici delle amministrazioni locali (in particolare dei sindaci) e più di recente dei presidenti delle amministrazioni regionali».

    Peraltro, la previsione della possibilità di conferma, secondo il normale procedimento previsto per la nomina, e la circostanza che, nei novanta giorni successivi all'insediamento del nuovo Consiglio regionale, i dirigenti di vertice continuano a svolgere normalmente la loro attività, anche sulla base degli indirizzi nel frattempo intervenuti, hanno lo scopo di garantire la continuità della loro azione, nonché la partecipazione degli stessi dirigenti al procedimento che porta alle nuove nomine.

    Ne discende che non è compromesso l'art. 32 Cost., giacché il diritto alla salute è tutelato proprio dalla continuità dell'azione e dalla inesistenza di forme di pressione giuridica o psicologica sui direttori generali delle Asl.

    Infine, le norme sospettate di incostituzionalità non violerebbero in alcun modo l'art. 117, secondo comma, Cost., non contenendo disposizioni in materia di «ordinamento civile», ma solo regole di portata organizzativa che incidono sulla durata del rapporto libero-professionale dei direttori generali di Asl.

    La stessa Regione ha sottolineato come le proprie argomentazioni trovino sostegno nella recente sentenza della Corte n. 233 del 2006, che ha affermato la legittimità costituzionale di leggi delle Regioni Abruzzo e Calabria. In particolare, osserva la difesa della Regione, la Corte costituzionale ha affermato la legittimità costituzionale delle norme per cui le nomine agli organi di vertice degli enti regionali, effettuate dagli organi rappresentativi della Regione, sono caratterizzate dall'intuitus personae, nel senso che si fondano su valutazioni personali coerenti con l'indirizzo politico regionale.

    2. – Il Consiglio di Stato ha sollevato (r.o. n. 237 del 2006) questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell'art. 53, comma 2, «e/o» dell'art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 1 del 2004 e dell'art. 71, commi 1, 3 e 4, della legge della Regione Lazio n. 9 del 2005, per contrasto con gli artt. 97, 117, terzo comma, ultimo periodo, e 117, secondo comma, lettera l), Cost.

    La questione è insorta nel corso del giudizio di appello avverso l'ordinanza del Tar del Lazio che ha sospeso il provvedimento con il quale la Regione Lazio aveva dichiarato cessato dall'incarico il direttore generale dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) del Lazio, in applicazione dell'art. 55 del nuovo statuto regionale, approvato con legge regionale n. 1 del 2004, e dell'art. 71 della legge regionale n. 9 del 2005.

    Il remittente ritiene la propria giurisdizione, in quanto i provvedimenti impugnati sarebbero «chiara espressione di uno straordinario potere attribuito all'amministrazione regionale in ordine all'organizzazione degli enti da essa dipendenti, sulla base di una valutazione discrezionale circa la sussistenza dei presupposti di legge, a fronte della quale non sono ipotizzabili se non posizioni di interesse legittimo al suo corretto esercizio».

    In punto di rilevanza, il giudice osserva che l'applicazione all'Arpa del Lazio delle suindicate norme regionali discende dalla natura strumentale dell'ente. Invero, la legge regionale 6 ottobre 1998, n. 45 (Istituzione dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale del Lazio-Arpa), qualifica espressamente l'Arpa come ente strumentale, dotato di personalità giuridica (art. 2), che svolge funzioni in materia ambientale a favore della Regione, degli enti locali e degli enti gestori delle aree naturali regionali (art. 3); la sottopone alla vigilanza e al controllo della giunta regionale (art. 9); riserva al consiglio regionale la nomina del direttore generale (art. 5); riconosce che il personale, i beni e le dotazioni sono della Regione (art. 19) e che i finanziamenti sono, in prevalenza, regionali (art. 20).

    All'Arpa, pertanto, in quanto ente pubblico dipendente dalla Regione, si applicano sia l'art. 55 dello statuto, sia l'art. 71 della legge regionale n. 9 del 2005.

    In ogni caso, aggiunge il remittente, quand'anche si ritenesse che l'Arpa sia compresa fra le «unità amministrative» contemplate dall'art. 54 dello statuto, essa rientrerebbe ugualmente nella disciplina dello spoils system, poiché l'art. 71, comma 3, della legge regionale n. 9 del 2005 richiama espressamente l'art. 53, comma 2, dello statuto, che prevede l'applicazione di tale istituto anche alle posizioni amministrative «di particolare rilievo e responsabilità».

    La suddetta normativa regionale appare, secondo il remittente, sospetta di incostituzionalità sotto numerosi profili, che in gran parte coincidono con quelli di cui alle ordinanze sub 1 (r. o. da n. 9 a 14 del 2006).

    In particolare, il remittente osserva che dalla legge regionale istitutiva dell'Arpa (art. 5, comma 6, legge n. 45 del 1998) sarebbe ricavabile un «principio fondamentale della materia secondo il quale al rapporto del direttore generale deve essere garantita una stabilità ed autonomia in misura […] congrua per l'esercizio […] delle sue specifiche attribuzioni, secondo i canoni […] di adeguatezza dell'azione amministrativa all'art. 97 Cost.». La normativa regionale, invece, avrebbe introdotto in quel rapporto una condizione di precarietà.

    Ancora, la previsione della decadenza dalla carica esulerebbe dalla competenza legislativa regionale, in quanto, incidendo sulla disciplina del sottostante rapporto di lavoro di cui determina la cessazione, si esplicherebbe, in realtà, nella materia dell'«ordinamento civile», che l'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. affida alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

    2.1. – Si è costituita la parte privata, rilevando anzitutto che l'Arpa non rientra fra gli enti strumentali di cui all'art. 55 dello statuto, come affermato dal giudice remittente, bensì fra le agenzie, che l'art. 54 dello statuto descrive come unità amministrative autonome; e ciò comporta che ad essa non si applichi nessuna delle disposizioni denunciate dal giudice.

    Ciò precisato, la parte condivide i dubbi di legittimità espressi dal giudice a quo nel contesto della ricostruzione normativa da lui effettuata.

    2.2. – Si è costituita la Regione Lazio, rilevando che la recente sentenza della Corte costituzionale n. 233 del 2006 ha risolto in senso favorevole alle Regioni questioni di legittimità costituzionale in tutto analoghe a quelle sollevate dal giudice remittente.

    Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la Regione ha fatto presente che la parte privata ha rinunciato al ricorso pendente avanti al Consiglio di Stato.

    3. – Il Tar del Lazio ha sollevato (r.o. n. 431 del 2006) questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 28 aprile 2006, n. 4, recante «Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2006 (art. 11, legge regionale 20 novembre 2001, n. 25)», in relazione agli articoli 3, primo comma, e 97 Cost.

    L'art. 43 della legge regionale n. 4 del 2006 dispone – fra l'altro – che «[n]elle more dell'adeguamento della legge regionale 6 ottobre 1998, n. 45 e successive modifiche, ai fini del riassetto organizzativo dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale del Lazio (Arpa), quale ente strumentale della Regione, e di una maggiore razionalizzazione funzionale della stessa, in coerenza con i principi statutari, è soppresso l'organo di amministrazione previsto dalla citata legge, costituito dal direttore generale e dai due vicedirettori» (comma 1); «[i]l Presidente della Regione nomina, con criterio fiduciario, un commissario straordinario e due subcommissari che lo coadiuvano nelle funzioni già di competenza dell'organo di cui al comma 1, ivi comprese quelle concernenti il conferimento degli incarichi di direttore tecnico, di direttore amministrativo e di direttore di ciascuna delle sezioni provinciali dell'Arpa» (comma 2).

    Premette il Tribunale che la ricorrente, direttore dell'Arpa del Lazio, ha impugnato il provvedimento con il quale, ai sensi dell'art. 43 della legge regionale n. 4 del 2006, è stato nominato il commissario straordinario dell'ente; che, in precedenza, la ricorrente aveva altresì impugnato il provvedimento col quale il Presidente della Regione Lazio l'aveva dichiarata cessata dall'incarico di direttore generale dell'ente, in applicazione dell'art. 71 della legge regionale n. 9 del 2005, che prevede la cessazione di diritto degli incarichi dirigenziali presso la Regione e gli enti pubblici dipendenti entro novanta giorni dalla prima seduta del nuovo Consiglio regionale.

    Il provvedimento impugnato davanti al Tribunale remittente è stato, appunto, adottato in applicazione dell'art. 43 della legge regionale n. 4 del 2006; conseguentemente, argomenta il remittente, in mancanza di una pronuncia di incostituzionalità della norma impugnata, il ricorso contro il provvedimento amministrativo non potrebbe che essere respinto.

    In punto di non manifesta infondatezza, il remittente rileva, essenzialmente, il contrasto della richiamata disposizione con i principi costituzionali di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione. Infatti, il giudizio di ragionevolezza e di osservanza del canone di buon andamento deve consistere in una valutazione esterna delle scelte legislative e, per costante giurisprudenza della Corte, la violazione del principio del buon andamento non può essere invocata se non quando si assuma la manifesta irrazionalità delle misure normativamente introdotte rispetto alle finalità sostanziali perseguite. Nel caso di specie, la disposizione si rivela complessivamente irragionevole e arbitraria, poiché, mentre per un verso sopprime l'organo di amministrazione dell'ente (direttore generale e vice direttori), per altro verso prevede la nomina di un organo straordinario chiamato ad esercitare le medesime competenze funzionali dell'organo soppresso.

    Donde la violazione del canone di coerenza delle misure organizzative delle pubbliche amministrazioni con il principio del buon andamento di cui all'art. 97 Cost., nonché il carattere di legge-provvedimento della citata disposizione, in violazione dell'art. 3 Cost.

    3.1. – Si è costituita la ricorrente nel giudizio a quo, secondo la quale la semplice lettura dell'art. 43 della legge regionale n. 4 del 2006 dimostra che si è in presenza di una cosiddetta legge-provvedimento. Si tratta, infatti, di una norma che dispone in concreto su un rapporto specifico, avendo la Regione operato una trasposizione in sede legislativa del contenuto del provvedimento di decadenza dalla carica di direttore.

    Di qui, l'irragionevolezza della norma, mancando essa di una ratio oggettiva riconducibile ad esigenze di carattere organizzativo idonee a giustificarne l'adozione, ed inoltre la violazione del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost., in quanto essa priva il diretto destinatario della norma, e cioè il precedente direttore dell'Arpa, di ogni argomento di difesa e/o di resistenza avverso il provvedimento di decadenza.

    3.2. – Si è costituita la Regione Lazio, sostenendo l'infondatezza della questione.

    Essa deduce che la disposizione censurata si colloca nell'ottica del riassetto organizzativo dell'Arpa, nelle more dell'adeguamento di questa ai nuovi principi statutari di cui alla legge regionale n. 1 del 2004.

    Sulla scorta di tale premessa, la difesa esclude ogni violazione dell'art. 97 Cost., atteso che l'Arpa è sottoposta a un «potere generale di vigilanza e controllo» della Giunta regionale, anche al fine di garantire che la gestione dell'Agenzia sia conforme agli indirizzi della programmazione regionale.

    La circostanza che la norma impugnata preveda la nomina di un organo straordinario con le medesime competenze funzionali dell'organo soppresso viene spiegata con «[lo] scopo di meglio assicurare la continuità organizzativa, senza modificare l'assetto della distribuzione di compiti e funzioni già esistente che, diversamente, [avrebbe comportato] un intervento di riorganizzazione più complesso, non giustificato dalla transitorietà e temporaneità che caratterizza l'istituto del commissariamento e dal ruolo ad esso attribuito».

    Neppure sussisterebbe la violazione dell'art. 3 Cost., poiché dal contenuto della disposizione censurata emerge che essa non è affatto discriminatoria nei confronti della ricorrente. D'altra parte, la Corte costituzionale ha escluso che il legislatore incontri il limite di una riserva di amministrazione ed ha ammesso, pertanto, che la legge possa avere qualsiasi contenuto sostanziale, anche diverso da quello consistente nel dettare disposizioni generali ed astratte, onde la legge può anche avere contenuto particolare e concreto ed assolvere un compito sostanzialmente identico a quello dell'atto amministrativo, naturalmente nel rispetto dei limiti costituzionalmente stabiliti.

    3.3. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la Regione ha fatto presente che la ricorrente nel giudizio a quo ha rinunciato al ricorso pendente avanti al Tar del Lazio. Ha prospettato, pertanto, l'irrilevanza della questione di legittimità costituzionale. Insiste, in ogni caso, sull'infondatezza della questione.

    4. – Il Tribunale di Palermo ha sollevato (r.o. n. 589 del 2005) questione di legittimità costituzionale dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), nella parte in cui prevede che «gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati, modificati e rinnovati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto», con riferimento agli artt. 14 dello statuto speciale della Regione Siciliana (r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2) e 97, primo comma, Cost.

    L'art. 96 della legge regionale n. 2 del 2002, nel modificare l'art. 9 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10 (Norme sulla dirigenza e sui rapporti di impiego e di lavoro alle dipendenze della Regione Siciliana. Conferimento di funzioni e compiti agli enti locali. Istituzione dello Sportello unico per le attività produttive. Disposizioni in materia di protezione civile. Norme in materia di pensionamento), stabilisce che gli incarichi dirigenziali, diversi da quelli di dirigente generale, «già conferiti con contratto possono essere revocati, modificati e rinnovati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto», ritenendosi altrimenti confermati fino alla loro «materiale scadenza», e precisando che tale disposizione costituisce «norma non derogabile dai contratti o accordi collettivi, anche se già sottoscritti».

    La questione è stata prospettata in un giudizio nel quale il ricorrente, già dirigente di un servizio del Dipartimento formazione professionale dell'amministrazione regionale, ha chiesto: l'annullamento della «nota» con la quale il dirigente generale dell'assessorato convenuto, appena insediatosi, gli aveva revocato l'incarico dirigenziale, conferitogli con precedente contratto; l'annullamento della «nota» con la quale gli era stato attribuito un incarico non corrispondente, sia professionalmente che economicamente, a quello revocato; il diritto a mantenere l'inquadramento, l'incarico e le competenze economiche già attribuitegli e ad ottenere la restituzione delle somme trattenutegli per effetto della revoca; il diritto al risarcimento dei danni.

    In punto di rilevanza, osserva il Tribunale che il giudizio sull'operato dell'amministrazione convenuta – da formulare alla stregua della norma sospettata di incostituzionalità – costituisce presupposto indefettibile di tutte le domande proposte in giudizio.

    Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale rileva che l'art. 96 della legge regionale n. 2 del 2002, introducendo il meccanismo del cosiddetto spoils system anche per i livelli dirigenziali inferiori a quello di dirigente generale, non sembra coerente con la previsione di cui all'art. 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sia nel testo originario, sia in quello successivo alla modifica apportata dall'art. 3, comma 1, lett. i), della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato), che pure costituisce «norma fondamentale di riforma economico-sociale» (art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 165 del 2001), alla cui osservanza la Regione Siciliana è tenuta nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di «stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione» (art. 14, lett. q, dello statuto).

    Aggiunge che la rilevata incoerenza assume particolare significato a seguito della cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, configurando un intervento legislativo regionale in materia di rapporti interprivati (argomento ex art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001) che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente escluso anche per le Regioni ad autonomia speciale.

    Ancora, la norma in questione implica una marcata «precarizzazione» degli incarichi dei dirigenti di seconda e terza fascia, atteso che, ad ogni «rotazione» dei dirigenti generali, viene a riaprirsi il termine di novanta giorni entro cui possono essere modificati o revocati gli incarichi dei dirigenti minori; il tutto, con possibili pregiudizi per il buon andamento della pubblica amministrazione.

    Infine, il metodo del cosiddetto spoils system, se pure può trovare giustificazione per il grado apicale della dirigenza, non appare coerente con il principio di imparzialità dell'azione amministrativa allorché lo si voglia applicare alla più vasta area della dirigenza di seconda e terza fascia, i cui compiti non sono strettamente connessi all'indirizzo politico e per la quale, al contrario, il ricorso a criteri di selezione che privilegino, sia pure indirettamente, la lealtà politica potrebbe mettere capo a pratiche lottizzatorie, in contrasto con l'obiettivo della separazione fra indirizzo politico e gestione amministrativa, che ispira la riforma della dirigenza contenuta nel decreto legislativo n. 165 del 2001.

    4.1. – Si è costituita la Regione Siciliana, sostenendo l'infondatezza della questione.

    Essa rileva, in primo luogo, che, a seguito della riforma del titolo V della Costituzione e del riparto di competenze legislative fra lo Stato e le Regioni, il limite delle riforme economico-sociali non può ritenersi più operante per le materie oggetto di competenza legislativa esclusiva della Regione Siciliana. La disposizione regionale che il Tribunale sospetta di incostituzionalità interviene, infatti, in una materia («stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione») attribuita alla legislazione esclusiva della Regione (art. 14, lett. q, dello statuto), che coincide con un'area ora attribuita alla potestà legislativa esclusiva («residuale») delle Regioni ordinarie. E tale potestà esclusiva compete anche alla Regione Siciliana, ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). Ne discende che, pur ammesso che la limitazione dello spoils system alla dirigenza generale costituisca un principio fondamentale della riforma della dirigenza statale, detto principio non vincola l'esercizio dell'autonomia legislativa regionale nella materia inerente alla disciplina dei propri dirigenti.

    Del pari errato, secondo la difesa della Regione, è il ritenere che la disposizione censurata violi l'art. 97 Cost., in quanto inciderebbe sull'autonomia e indipendenza dei dirigenti intermedi e condurrebbe a un arresto dell'azione amministrativa. Rileva, infatti, che, nel termine di novanta giorni dall'insediamento del nuovo dirigente generale, gli incarichi dei dirigenti sottordinati mantengono la loro efficacia fino all'eventuale revoca o modificazione, e che l'autonomia e l'indipendenza del dirigente sono garanzie che debbono valere non per l'individuazione dell'incarico dirigenziale, ma per l'espletamento dell'incarico concretamente affidato al dirigente.


 

Considerato in diritto

    1. – Vengono all'esame della Corte questioni di legittimità costituzionale relative a disposizioni legislative della Regione Lazio e della Regione Siciliana in materia di regime della dirigenza nelle aziende sanitarie locali e nelle aziende ospedaliere, nonché nell'amministrazione e negli enti regionali.

    I giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

    2. – Con sei ordinanze di identico contenuto (r.o. nn. da 9 a 14 del 2006), il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell'articolo 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), e dell'articolo 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005 n. 9 (Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2005), in riferimento agli articoli 97, 32, 117, terzo comma, ultimo periodo, e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

    Si tratta di disposizioni che configurano nella Regione Lazio – e nel caso di specie sono applicate ai direttori generali delle Asl – il metodo di relazioni fra politica e amministrazione nel quale si riflette «la scelta di fondo di commisurare la durata delle nomine e degli incarichi dirigenziali a quella degli organi d'indirizzo politico» (sentenza n. 233 del 2006).

    2.1. – Va esaminata, in primo luogo, l'eccezione di inammissibilità sollevata, da alcune parti private (controinteressate nei giudizi principali), sul presupposto che il giudice remittente sarebbe incorso in una «evidente contraddittorietà» di motivazione circa la sussistenza della propria giurisdizione, per aver confuso l'insediamento del nuovo Consiglio regionale e, cioè, l'evento oggettivo cui è collegata, secondo le norme censurate, l'automatica cessazione dalla carica con la discrezionalità dell'amministrazione nel determinare l'effetto (l'automatica cessazione della carica) stabilito dalla norma.

    Nel giudizio principale, gli interessati hanno impugnato, da un lato, la lettera con la quale il presidente della Regione ha comunicato a ciascuno di loro che l'incarico di direttore generale sarebbe cessato il novantesimo giorno successivo all'insediamento del nuovo Consiglio regionale, così manifestando la volontà di non confermarli nell'incarico; dall'altro, gli atti di nomina dei nuovi direttori generali.

    Il carattere discrezionale sia della «non conferma», sia delle nuove nomine rende non implausibile l'affermazione, brevemente motivata, della propria giurisdizione da parte del giudice remittente.

    2.2. – Sempre con riguardo all'ammissibilità della questione, non v'è dubbio che, diversamente da quanto sostenuto da alcune parti private, le Asl rientrino fra gli «enti pubblici dipendenti», ai cui «componenti degli organi istituzionali» si applica la decadenza automatica regolata dalle disposizioni censurate.

    Le Asl sono, infatti, costituite con legge regionale (per il Lazio, dalla legge regionale 16 giugno 1994, n. 18, recante «Disposizioni per il riordino del servizio sanitario regionale ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni. Istituzione delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere»); sono sottoposte al controllo, alla vigilanza e al potere d'indirizzo regionali, sia quanto all'attività che quanto agli organi; i loro bilanci e rendiconti sono approvati dalla Regione, che assicura le necessarie risorse finanziarie; il loro organo istituzionale di vertice – il direttore generale – è nominato dal presidente della Regione. In ogni caso, la Regione Lazio ha definito enti pubblici dipendenti dalla Regione tutti quelli «che operano nell'ambito del territorio regionale e nelle materie riservate alla competenza della regione stessa» (art. 56 della legge regionale 20 novembre 2001, n. 25, recante «Norme in materia di programmazione, bilancio e contabilità della Regione»). Infine, la giurisprudenza della Corte ha qualificato le Asl come lo «strumento attraverso il quale la Regione provvede all'erogazione dei servizi sanitari nell'esercizio della competenza in materia di tutela della salute ad essa attribuita dalla Costituzione» (sentenza n. 220 del 2003).

    2.3. – Sono, invece, inammissibili gli autonomi motivi di censura proposti, con riferimento agli artt. 98 e 117, primo comma, Cost., da alcune parti private, potendo queste soltanto argomentare in ordine ai profili di illegittimità costituzionale prospettati dal giudice remittente.

    2.4. – Nel merito, la violazione dell'art. 97 Cost. viene prospettata dal giudice remittente sul presupposto che le disposizioni censurate, ricollegando la cessazione dalla carica al rinnovo del Consiglio regionale, manifestano «l'evidente finalità di consentire alle forze politiche di cui è espressione il nuovo Consiglio di sostituire i preposti agli organi istituzionali» degli enti che dipendono dalla Regione. Ne discenderebbe «una cesura nella continuità dell'azione amministrativa esplicata dal titolare della carica», e ciò non in dipendenza di una valutazione dell'attività svolta (viene richiamata, al riguardo, la sentenza n. 193 del 2002), ma come conseguenza di un evento oggettivo, quale – appunto – l'insediamento del nuovo Consiglio all'esito della consultazione elettorale; donde il contrasto con i principi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione.

    2.5. – La questione è fondata.

    2.6. – Le Asl, in quanto strutture cui spetta di erogare l'assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie nell'ambito dei servizi sanitari regionali, assolvono compiti di natura essenzialmente tecnica, che esercitano con la veste giuridica di aziende pubbliche, dotate di autonomia imprenditoriale, sulla base degli indirizzi generali contenuti nei piani sanitari regionali e negli indirizzi applicativi impartiti dalle Giunte regionali (art. 3 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, recante «Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421»; art. 1 della legge della Regione Lazio n. 18 del 1994).

    In coerenza con tali caratteristiche, è stabilito che i direttori generali delle Asl siano nominati fra persone in possesso di specifici requisiti culturali e professionali e siano soggetti a periodiche verifiche degli obiettivi e dei risultati aziendali conseguiti (oltre che alla risoluzione del contratto di lavoro per gravi motivi, ovvero per violazione di legge o dei principî di imparzialità e buon andamento) (art. 8 della legge della Regione Lazio n. 18 del 1994).

    Nella Regione Lazio, in particolare, è previsto che la nomina dei direttori generali delle Asl sia il risultato di un procedimento nel quale, a seguito di un avviso da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale (e di cui dare notizia attraverso il Bollettino Ufficiale della Regione), il Presidente della Regione individua i direttori avvalendosi di «tre esperti» in direzione aziendale o di una «agenzia di servizi accreditata a livello nazionale per la consulenza, la formazione e la selezione dei quadri e dirigenti aziendali» e dopo aver udito il parere non vincolante della commissione consiliare competente in materia di sanità (art. 8, commi 1-2, della legge regionale n. 18 del 1994). Inoltre, la «decadenza» dall'incarico per grave disavanzo nella gestione aziendale, per gravi violazioni di legge o dei principi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione o per altri gravi motivi è disposta previa deliberazione – ovviamente motivata – della Giunta regionale, nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza «sulla corretta ed economica gestione delle risorse assegnate, sulla imparzialità e buon andamento della attività, sulla qualità dell'assistenza» (artt. 8, commi 6 e 6-bis, e 2, comma 2, lett e), della legge regionale n. 18 del 1994).

    Il direttore generale di Asl viene, quindi, qualificato dalle norme come una figura tecnico-professionale che ha il compito di perseguire, nell'adempimento di un'obbligazione di risultato (oggetto di un contratto di lavoro autonomo), gli obiettivi gestionali e operativi definiti dal piano sanitario regionale (a sua volta elaborato in armonia con il piano sanitario nazionale), dagli indirizzi della Giunta, dal provvedimento di nomina e dal contratto di lavoro con l'amministrazione regionale.

    2.7. – In questo contesto di relazioni fra il direttore generale di Asl e l'amministrazione regionale si inseriscono le norme censurate, che hanno introdotto nella Regione Lazio – quale regime permanente – la decadenza automatica del direttore generale allo scadere del novantesimo giorno dall'insediamento del Consiglio regionale.

    Tale decadenza automatica non soddisfa l'esigenza di preservare un rapporto diretto fra organo politico e direttore generale e, quindi, la «coesione tra l'organo politico regionale […] e gli organi di vertice dell'apparato burocratico […]» (sentenza n. 233 del 2006). Infatti, essa interviene anche nel caso in cui la compagine di governo regionale venga confermata dal risultato elettorale che ha portato all'elezione del nuovo Consiglio. Né alla menzionata esigenza supplisce l'eventuale conferma del direttore generale, non essendo previsto che essa sia preceduta da un'apposita valutazione, né che sia motivata.

    Inoltre, nell'assetto organizzativo regionale vi è una molteplicità di livelli intermedi lungo la linea di collegamento che unisce l'organo politico ai direttori generali delle Asl. Il rapporto fra questi e quello è mediato da strutture dipendenti dalla Giunta: uffici di diretta collaborazione, dipartimento e, al suo interno, una direzione generale («Tutela della salute e sistema sanitario regionale»), composta da 18 «aree» e dotata di un'apposita struttura di staff per il «Coordinamento interventi socio-sanitari». Dunque, non vi è un rapporto istituzionale diretto e immediato fra organo politico e direttori generali.

    Infine, la decadenza automatica del direttore generale è collegata al verificarsi di un evento – il decorso di novanta giorni dall'insediamento del Consiglio regionale – che è indipendente dal rapporto tra organo politico e direttori generali di Asl. Dunque, il direttore generale viene fatto cessare dal rapporto (di ufficio e di lavoro) con la Regione per una causa estranea alle vicende del rapporto stesso, e non sulla base di valutazioni concernenti i risultati aziendali o il raggiungimento degli obiettivi di tutela della salute e di funzionamento dei servizi, o – ancora – per una delle altre cause che legittimerebbero la risoluzione per inadempimento del rapporto.

    2.8. – Le disposizioni censurate violano l'art. 97 Cost., sotto il duplice profilo dell'imparzialità e del buon andamento dell'amministrazione.

    L'art. 97 Cost. sottopone gli uffici pubblici ad una riserva (relativa) di legge, sottraendoli all'esclusiva disponibilità del governo; stabilisce che gli uffici pubblici siano organizzati secondo i principi di imparzialità ed efficienza; prevede che l'accesso ai pubblici uffici avvenga, di norma, mediante procedure fondate sul merito.

    Questa Corte ha costantemente affermato che «il principio di imparzialità stabilito dall'art. 97 della Costituzione – unito quasi in endiadi con quelli della legalità e del buon andamento dell'azione amministrativa – costituisce un valore essenziale cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l'organizzazione dei pubblici uffici» (sentenza n. 453 del 1990).

    Inoltre, ha sottolineato che «il principio di imparzialità […] si riflette immediatamente in altre norme costituzionali, quali l'art. 51 (tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge) e l'art. 98 (i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione) della Costituzione, attraverso cui si mira a garantire l'amministrazione pubblica e i suoi dipendenti da influenze politiche o, comunque, di parte, in relazione al complesso delle fasi concernenti l'impiego pubblico (accesso all'ufficio e svolgimento della carriera)» (sentenza n. 333 del 1993). Affermazione, questa, che riprende le parole del relatore nella Seconda sottocommissione dell'Assemblea costituente sul testo che diverrà l'art. 97 Cost., per cui «la necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica amministrazione» si riporta, fra l'altro, all'esigenza «di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un'amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un'amministrazione dei partiti».

    La Corte, poi, ha affermato che gli artt. 97 e 98 Cost. sono corollari dell'imparzialità, in cui si esprime la distinzione tra politica e amministrazione, tra l'azione del governo – normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l'azione dell'amministrazione, che, «nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento». E in questa prospettiva, «collegata allo stesso impianto costituzionale del potere amministrativo nel quadro di una democrazia pluralista», si spiega come «il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, resti il metodo migliore per la provvista di organi chiamati a esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione» (sentenze n. 333 del 1993 e n. 453 del 1990).

    Il perseguimento dell'interesse connesso alla scelta delle persone più idonee all'esercizio della funzione pubblica deve avvenire «indipendentemente da ogni considerazione per gli orientamenti politici […] dei vari concorrenti» (sentenza n. 453 del 1990) e in modo che «il carattere esclusivamente tecnico del giudizio [risulti] salvaguardato da ogni rischio di deviazione verso interessi di parte», così da «garantire scelte finali fondate sull'applicazione di parametri neutrali e determinate soltanto dalla valutazione delle attitudini e della preparazione dei candidati» (sentenza n. 453 del 1990). Di conseguenza, la selezione dei pubblici funzionari non ammette ingerenze di carattere politico, «espressione di interessi non riconducibili a valori di carattere neutrale e distaccato» (sentenza n. 333 del 1993), unica eccezione essendo costituita dall'esigenza che alcuni incarichi, quelli dei diretti collaboratori dell'organo politico, siano attribuiti a soggetti individuati intuitu personae, vale a dire con una modalità che mira a «rafforzare la coesione tra l'organo politico regionale (che indica le linee generali dell'azione amministrativa e conferisce gli incarichi in esame) e gli organi di vertice dell'apparato burocratico (ai quali tali incarichi sono conferiti ed ai quali compete di attuare il programma indicato), per consentire il buon andamento dell'attività di direzione dell'ente (art. 97 Cost.)» (sentenza n. 233 del 2006).

    2.9. – A sua volta, il principio di efficienza dell'amministrazione trova esplicazione in una serie di regole, che vanno da quella di una razionale organizzazione degli uffici a quella di assicurarne il corretto funzionamento; a quella di garantire la regolarità e la continuità dell'azione amministrativa e, in particolare, dei pubblici servizi, anche al mutare degli assetti politici (salva – come già notato – la rimozione del funzionario quando ne siano accertate le responsabilità previste dall'ordinamento); a quella per cui i dirigenti debbono essere sottoposti a periodiche verifiche circa il rispetto dei principi di imparzialità, funzionalità, flessibilità, trasparenza, nonché alla valutazione delle loro prestazioni in funzione dei risultati e degli obiettivi prefissati (salva, anche qui, la rimozione per la valutazione ad esito negativo).

    Proprio con riferimento ai dirigenti, del resto, la Corte ha sottolineato che la disciplina privatistica del loro rapporto di lavoro non ha abbandonato le «esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001); che, in questa logica, essi godono di «specifiche garanzie» quanto alla verifica che gli incarichi siano assegnati «tenendo conto, tra l'altro, delle attitudini e delle capacità professionali» e che la loro cessazione anticipata dall'incarico avvenga in seguito all'accertamento dei risultati conseguiti (sentenza n. 193 del 2002; ordinanza n. 11 del 2002); che il legislatore, proprio per porre i dirigenti (generali) «in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto dei principî d'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione [...], ha accentuato [con il d.lgs. n. 80 del 1998] il principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di governo e funzione di gestione e attuazione amministrativa dei dirigenti» (ordinanza n. 11 del 2002).

    Agli stessi principi si riporta la disciplina del giusto procedimento, specie dopo l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, per cui il destinatario dell'atto deve essere informato dell'avvio del procedimento, avere la possibilità di intervenire a propria difesa, ottenere un provvedimento motivato, adire un giudice.

    2.10. – In conclusione, l'imparzialità e il buon andamento dell'amministrazione esigono che la posizione del direttore generale sia circondata da garanzie; in particolare, che la decisione dell'organo politico relativa alla cessazione anticipata dall'incarico del direttore generale di Asl rispetti il principio del giusto procedimento. La dipendenza funzionale del dirigente non può diventare dipendenza politica. Il dirigente è sottoposto alle direttive del vertice politico e al suo giudizio, ed in seguito a questo può essere allontanato. Ma non può essere messo in condizioni di precarietà che consentano la decadenza senza la garanzia del giusto procedimento.

    Dev'essere, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale del «combinato disposto» dell'art. 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio n. 9 del 2005 e dell'art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 1 del 2004, nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dall'incarico.

    Gli altri profili di censura restano assorbiti.

    3. – Il Consiglio di Stato (r.o. n. 237 del 2006) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 53, comma 2, «e/o» dell'art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 1 del 2004 (Nuovo Statuto della Regione Lazio) e dell'art. 71, commi 1, 3 e 4, della legge della Regione Lazio n. 9 del 2005, per contrasto con gli artt. 97, 117, terzo comma, ultimo periodo, e 117, secondo comma, lettera l), Cost.

    La questione, rispetto alla quale è ininfluente la rinuncia al ricorso, eccepita dalla Regione, nel giudizio avanti al Tar del Lazio (in cui è stata emessa l'ordinanza impugnata nel giudizio a quo), è comunque inammissibile.

    Essa è formulata, infatti, in termini, ad un tempo, congiuntivi («e») e alternativi («o»), senza nesso di subordinazione fra le due prospettazioni e senza individuare la norma ritenuta applicabile nel processo principale, lasciando alla Corte di scegliere la disposizione da dichiarare eventualmente illegittima.

    4. – Il Tar del Lazio (r.o. n. 431 del 2006) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 28 aprile 2006, n. 4, recante «Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2006 (art. 11, legge regionale 20 novembre 2001, n. 25)», in relazione agli articoli 3, primo comma, e 97 Cost.

    La questione, rispetto alla quale è ininfluente l'avvenuta rinuncia al ricorso nel giudizio a quo, è infondata.

    Il giudice remittente non svolge argomentazioni persuasive per dimostrare la natura di legge (o, meglio, di norma) provvedimento della disposizione censurata.

    Egli si limita, infatti, da un lato, a rilevare l'«irrazionalità» della legge, consistente in ciò, che la norma, dopo aver soppresso un organo ordinario (il direttore e i due vice-direttori dell'Arpa), attribuisce le stesse funzioni ad un organo straordinario (il commissario e due vice-commissari); dall'altro, a prospettare il «presumibile carattere discriminatorio della censurata disposizione».

    Senonché, da una parte, è del tutto normale, nelle vicende di riordino degli enti pubblici, che gli organi straordinari subentrino agli organi ordinari nell'esercizio delle loro funzioni. Dall'altra parte, il remittente non svolge argomentazioni sul carattere discriminatorio della disposizione.

    5. – Il Tribunale di Palermo (r.o. n. 589 del 2005), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), nella parte in cui prevede che «gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati, modificati e rinnovati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto», con riferimento agli artt. 14 dello statuto speciale della Regione Siciliana (r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2) e 97, primo comma, Cost.

    La questione è fondata.

    Va esclusa, anzitutto, l'applicabilità, nelle regioni a statuto speciale, come in quelle ordinarie, dei principi della legge statale (legge n. 145 del 2002) concernenti il regime dei dirigenti nelle amministrazioni dello Stato (sentenza n. 233 del 2006).

    In secondo luogo, la Corte – con riferimento all'art. 97 Cost. – ha già ritenuto che, mentre il potere della Giunta regionale di conferire incarichi dirigenziali cosiddetti «apicali» a soggetti individuati intuitu personae mira ad assicurare quel continuum fra organi politici e dirigenti di vertice che giustifica, nei confronti di questi ultimi, la cessazione degli incarichi loro conferiti dalla precedente Giunta regionale, «[a] tale schema rimangono […] estranei gli incarichi dirigenziali di livello “non generale”, non conferiti direttamente dal vertice politico e quindi non legati ad esso dallo stesso grado di contiguità che connota gli incarichi apicali» (ibidem).

    Si aggiunga che, nel caso di specie, l'avvicendamento dei titolari di incarichi dirigenziali non di vertice è fatto dipendere dalla discrezionale volontà del direttore generale, nominato dal nuovo Governo regionale, con ciò aggiungendo una ulteriore causa di revoca – peraltro senza che sia previsto obbligo di valutazione e di motivazione – a quelle di cui all'art. 10, comma 3, della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10 (Norme sulla dirigenza e sui rapporti di impiego e di lavoro alle dipendenze della Regione siciliana. Conferimento di funzioni e compiti agli enti locali. Istituzione dello Sportello unico per le attività produttive. Disposizioni in materia di protezione civile. Norme in materia di pensionamento), che sono connesse all'esito negativo della valutazione circa il conseguimento di risultati e obiettivi da parte del dirigente. Ciò in violazione sia del principio di ragionevolezza evocato dalla sentenza n. 233 del 2006, sia del principio del giusto procedimento di cui s'è detto.

    Dev'essere, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana n. 2 del 2002, nella parte in cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 dello stesso articolo possono essere revocati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara l'illegittimità costituzionale del «combinato disposto» dell'articolo 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2005), e dell'articolo 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dall'incarico;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), nella parte in cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto;

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 53, comma 2, «e/o» dell'art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 1 del 2004 e dell'art. 71, commi 1, 3 e 4, della legge della Regione Lazio n. 9 del 2005, sollevata, con riferimento agli artt. 97, 117, terzo comma, ultimo periodo, e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Consiglio di Stato con l'ordinanza (r.o. n. 237 del 2006) indicata in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 28 aprile 2006, n. 4, recante «Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2006 (art. 11, legge regionale 20 novembre 2001, n. 25)», sollevata, con riferimento agli articoli 3, primo comma, e 97 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2007.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI

 

 

 

 

 

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