ORDINANZA N.
91
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato
la seguente
ORDINANZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25
novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità
dell'esercizio della professione di avvocato), promosso dal Tribunale
di Napoli nel procedimento civile vertente tra Brandi Massimo ed altra
e la Presidenza del Consiglio dei ministri con ordinanza del 24 giugno
2008, iscritta al n. 315 del registro ordinanze 2008 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie
speciale, dell'anno 2008.
Visti
gli atti di costituzione di Brandi Massimo e dell'ADIP – Avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale, nonché l'atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell'udienza pubblica del 24 febbraio 2009 il Giudice relatore Paolo
Maria Napolitano;
uditi
l'avvocato Daniele Perna per Brandi Massimo e per l'ADIP – Avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale e l'avvocato dello Stato Sergio
Sabelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
che il
Tribunale ordinario di Napoli, con ordinanza del 24 giugno 2008, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge
25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità
dell'esercizio della professione di avvocato), nella parte in cui
prevedono, rispettivamente, che il divieto di esercizio della
professione di avvocato per i dipendenti pubblici a tempo parziale
ridotto (non superiore al 50 per cento del tempo pieno) si applichi
anche ai dipendenti già iscritti negli albi degli avvocati alla data
di entrata in vigore della medesima legge n. 339 del 2003, e che solo
per un breve periodo di tempo è possibile esercitare l'opzione imposta
fra pubblico impiego ed esercizio della professione;
che il
rimettente riferisce che un dipendente dell'Avvocatura dello Stato,
con qualifica di operatore amministrativo e in possesso
dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, aveva
chiesto all'amministrazione, ai sensi dell'art. 1, comma 58, della
legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), la trasformazione del proprio rapporto di lavoro a
tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time),
al fine di esercitare la professione di avvocato;
che
l'amministrazione, con decreto del 16 dicembre 2002, gli aveva negato
tale trasformazione, motivando il diniego con il conflitto d'interessi
che sarebbe scaturito dalla prosecuzione del rapporto di lavoro con
l'Avvocatura e dal contestuale esercizio della professione forense;
che il
dipendente, lamentando l'illegittimità del diniego opposto
dall'amministrazione, poiché questa, ai sensi del citato art. 1, comma
58, avrebbe solo dovuto prendere atto dell'opzione formulata dal
ricorrente, chiedeva dichiararsi l'avvenuta trasformazione del
rapporto di lavoro a tempo pieno con l'Avvocatura, in rapporto di
lavoro part-time, con condanna dell'amministrazione al
risarcimento del danno per perdita di chance;
che,
sempre secondo quanto riferisce il rimettente, la Presidenza del
consiglio dei Ministri si era ritualmente costituita nel
giudizio a quo, eccependo l'infondatezza delle ragioni
poste a base della domanda e concludendo per il suo rigetto, e si era
altresì costituita, in qualità di interventore volontario,
l'associazione Adip-Avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale,
chiedendo che venisse sollevata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003;
che il
rimettente aveva disposto una prima volta la trasmissione degli atti
alla Corte costituzionale, ravvisando la non manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della
legge n. 339 del 2003 in riferimento agli artt. 3 e 4 della
Costituzione;
che la
questione era stata decisa dalla Corte costituzionale con pronuncia di
inammissibilità emessa in data 22 novembre 2006 (sentenza n. 390 del
2006);
che il
rimettente, dopo aver riassunto il procedimento e riesaminato gli
atti, ha nuovamente ritenuto necessario sottoporre al vaglio della
Corte la questione di costituzionalità delle disposizioni richiamate,
ancorché sotto il diverso profilo del legittimo affidamento ingenerato
in coloro che avevano già usufruito della precedente possibilità di
esercitare la professione;
che il
Tribunale di Napoli, nel motivare la non manifesta infondatezza della
questione, ricostruisce l'evoluzione legislativa della disciplina
della compatibilità dell'impiego pubblico con l'esercizio delle
professioni evidenziando come il legislatore abbia progressivamente
abbandonato l'originario criterio della esclusività della prestazione
a favore della pubblica amministrazione fino a consentire, con la
legge n. 662 del 1996, la possibilità di una prestazione lavorativa
part-time e del contestuale esercizio delle libere professioni;
che le
disposizioni censurate, introdotte dalla legge n. 339 del 2003, hanno
escluso la professione di avvocato dall'ambito di applicazione dall'art.
1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996,
n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), ripristinando solo per essa il preesistente
regime di generale ed assoluta incompatibilità con la titolarità di
uffici pubblici, sia pure ricoperti con rapporto a tempo parziale non
superiore al 50 per cento del tempo pieno;
che la
ratio di quest'ultimo intervento legislativo, per quel che è
possibile ricavare dai lavori parlamentari, risiede, da un lato, nella
tutela dell'indipendenza della figura del difensore strettamente
collegata al diritto di difesa e, dall'altro, nella tutela del
prestigio del difensore, che nel caso del pubblico dipendente
part-time sarebbe basato non più «sulla sua professionalità, ma
sul suo potere nell'ambito dell'amministrazione, con creazione di una
clientela al di fuori di una corretta concorrenza professionale ed una
commistione di interessi privati in attività pubbliche»;
che tanto
la disciplina introdotta dalla legge n. 662 del 1996 quanto la
successiva modifica introdotta dalla legge n. 339 del 2003 sono state
sottoposte al giudizio di costituzionalità sotto diversi profili e con
differenti prospettazioni;
che la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 171 del 1999, ha dichiarato
infondate le questioni sollevate in via principale da alcune Regioni
relativamente ai commi 56 e 58 dell'art. 1 della legge n. 662 del 1996
qualificando le suddette norme quali «principi fondamentali della
legislazione statale», idonei come tali a vincolare anche la potestà
legislativa delle Regioni e, con la successiva sentenza n. 189 del
2001, ha dichiarato infondate le questioni sollevate in via
incidentale nei confronti delle stesse disposizioni della legge n. 662
del 1996;
che la
Corte, con la sentenza n. 390 del 2006, ha dichiarato infondata anche
la questione di costituzionalità degli artt. 1 e 2 della legge n. 339
del 2003, ritenendo non manifestamente irragionevole la scelta del
legislatore «di escludere la sola professione forense dal novero di
quelle – e cioè di tutte le altre per l'esercizio delle quali è
prescritta l'iscrizione in un albo – alle quali i pubblici dipendenti
a part-time cosiddetto ridotto possono accedere», in quanto non può
ritenersi priva di qualsiasi razionalità la valutazione – operata dal
legislatore – di maggiore pericolosità e frequenza dei possibili
inconvenienti derivanti dalla commistione tra pubblico impiego e
professione forense, rispetto a quella che è relativa all'esercizio
delle altre libere professioni;
che, a
parere del rimettente, con la citata sentenza, la Corte non si è
pronunciata sul diverso problema della legittimità costituzionale di
tale disciplina nella parte in cui estende i suoi effetti anche a
coloro che erano già iscritti negli albi degli avvocati ed
esercitavano la professione sulla base della disciplina preesistente
e, quindi, sulla legittimità del divieto sopravvenuto di continuare
l'esercizio dell'attività professionale già legittimamente intrapresa;
che,
quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente, dopo aver
affermato di essere consapevole che il legislatore è libero di
introdurre nuove disposizioni anche opposte a quelle in vigore, purché
non contrastanti con le norme costituzionali e non irragionevoli,
tuttavia precisa che, a suo parere, data la continuità dell'esperienza
giuridica, il cambiamento e l'innovazione non possono essere
espressione semplicemente di «una capricciosa volubilità del
legislatore», «tanto più quando, come nella specie, è in gioco un bene
della vita, come il lavoro, costituzionalmente protetto e anzi cardine
dell'intero sistema costituzionale (artt. 1, 4, 35 e 41 Cost.),
strettamente connesso col fondamentale principio di autodeterminazione
del singolo»;
che tale
principio acquisterebbe un rilievo costituzionale, limitando la
portata della discrezionalità legislativa, allorché il cambiamento
incida su situazioni e rapporti giuridici già in atto e non solo nel
caso di norme propriamente retroattive, ma anche nei casi, più
numerosi, in cui la nuova disciplina, pur operando tecnicamente solo
per il futuro, produce i suoi effetti su rapporti che si prolungano
nel tempo (rapporti di durata), alterando gli equilibri preesistenti,
facendo venir meno o modificando profondamente situazioni giuridiche
già acquisite e tuttora suscettibili di operare e di essere fatte
valere, vulnerando, in sostanza, la stessa «certezza del diritto»;
che, in
tale ipotesi, la libertà o discrezionalità del legislatore incontra il
limite derivante dall'esigenza di tener conto delle situazioni
giuridiche soggettive «di coloro che hanno agito facendo affidamento
sul quadro normativo in vigore, su di esso misurando portata, effetti
e prospettive del loro agire e del loro scegliere» in quanto «la
"certezza del diritto" – valore unanimemente considerato primario e di
rilievo costituzionale – non consiste solo nel potere in ogni momento
stabilire con sicurezza quale è la normativa vigente e quali ne sono
gli effetti, ma anche nel confidare ragionevolmente nella stabilità
dell'ordinamento, e cioè nel fatto che ogni cambiamento di regole
abbia una sua oggettiva ragione giustificatrice e rispetti le
legittime aspettative consolidatesi sulla base delle regole
preesistenti»;
che questo
principio, secondo il Tribunale di Napoli, sarebbe stato affermato
dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalla sentenza n. 349
del 1985, riguardante la materia pensionistica, e successivamente
sarebbe stato ribadito dalle sentenze n. 822 del 1988, n. 573 del
1990, n. 390 del 1995, sempre in materia pensionistica;
che,
dunque, interventi legislativi modificativi in pejus di
situazioni soggettive attinenti a rapporti di durata non possono
arbitrariamente frustrare l'affidamento dei cittadini fondato sulla
situazione normativa preesistente senza violare il principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, nonché, in
ragione degli interessi nella specie coinvolti, gli artt. 4, 35 e 41
della stessa Costituzione, relativi alle garanzie del lavoro e della
libertà di iniziativa economica, anche sotto il profilo della
concorrenza;
che, nel
caso di specie, il legislatore aveva espressamente consentito e anzi
incoraggiato con le norme del 1996 la possibilità che i pubblici
dipendenti a tempo parziale non superiore al 50 per cento accedessero
agli albi professionali, fra cui gli albi degli avvocati, salvo poi,
con la legge del 2003, rovesciare tale impostazione, vietando
l'accesso agli albi degli avvocati senza tener conto della posizione
di coloro che avevano già effettuato la loro scelta sulla base della
normativa preesistente, facendo affidamento su disposizioni (quelle
contenute nella legge n. 662 del 1996) ritenute pienamente legittime
dalle sentenze n. 89 del 2001 e n. 171 del 1999 della Corte
costituzionale e, addirittura, da quest'ultima, riconosciute come
«principi fondamentali», espressivi di un disegno legislativo organico
e di lungo periodo, volto a favorire l'efficienza amministrativa e la
concorrenza nei servizi professionali;
che,
pertanto, secondo il rimettente, tale affidamento non potrebbe essere
frustrato da un «estemporaneo» ripensamento, pur legittimo, del
legislatore mentre, nel necessario bilanciamento fra la
discrezionalità del legislatore e le aspettative legittime e
consolidate dei professionisti già iscritti negli albi, non si possono
che ritenere prevalenti queste ultime, imponendo di escludere
l'applicazione (sostanzialmente retroattiva) del nuovo regime
restrittivo a coloro che già da tempo erano iscritti negli albi degli
avvocati alla data di entrata in vigore della legge n. 339 del 2003;
che è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata;
che la
difesa statale richiama la sentenza n. 390 del 2006 con la quale la
Corte Costituzionale ha definito il giudizio di legittimità
costituzionale delle stesse disposizioni della legge n. 339 del 25
novembre 2003, promosso dallo stesso Tribunale nell'ambito del
medesimo giudizio, dichiarando l'inammissibilità della questione per
la sua irrilevanza nel giudizio a quo;
che, a
parere dell'Avvocatura dello Stato, le ragioni di inammissibilità
poste a base della citata pronuncia non sono state prese in
considerazione dal Tribunale di Napoli, che nella motivazione della
nuova ordinanza di rimessione non ha apportato alcun argomento idoneo
a superare l'effetto preclusivo della segnalata insussistenza del
requisito della rilevanza;
che,
comunque, quanto rilevato nella sentenza n. 390 del 2006 sarebbe
senz'altro riproponibile anche in riferimento alla ordinanza in esame
la quale, quindi, dovrebbe essere dichiarata inammissibile;
che, nel
merito, la difesa statale richiama la sentenza n. 390 del 2006 con la
quale la Corte ha già dichiarato non manifestamente irragionevole la
scelta operata dal legislatore, non potendo ritenersi priva di
qualsiasi razionalità una valutazione di maggiore pericolosità e
frequenza di inconvenienti derivanti dalla specifica “commistione” tra
pubblico impiego e libera professione forense, a differenza di tutte
le altre attività professionali per l'esercizio delle quali è
prescritta l'iscrizione in un albo;
che,
quanto alla disciplina transitoria, l'art. 2 della legge n. 339 del
2003 avrebbe comunque riconosciuto la posizione differenziata di
coloro che già avevano esercitato l'opzione attribuendo loro la
facoltà di scegliere tra il mantenimento del rapporto di impiego e
l'esercizio della professione forense entro il termine di 36 mesi
dall'entrata in vigore della legge stessa;
che si
sono costituiti il ricorrente nel giudizio principale e
l'interveniente ADIP (Avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale), entrambi ribadendo le ragioni a
sostegno dell'illegittimità costituzionale delle norme impugnate;
che le
parti ritengono superabile il profilo di inammissibilità rilevato
dalla Corte nella precedente sentenza perché il ricorrente, a seguito
del procedimento cautelare conclusosi favorevolmente, era già iscritto
all'Ordine degli Avvocati di Isernia;
che,
inoltre, quanto alla non manifesta infondatezza, le parti sviluppano
le stesse argomentazioni dell'ordinanza di rimessione;
che, in
prossimità dell'udienza, il ricorrente nel giudizio a quo ha
presentato una memoria con la quale aggiunge alle argomentazioni già
esposte circa la rilevanza e la fondatezza della questione, quella
della possibile disparità di trattamento che si sarebbe venuta a
determinare nell'ambito dei dipendenti pubblici a seguito
dell'approvazione del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione,
la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, che, all'art. 72, ha previsto la possibilità di
richiedere l'esonero dal servizio nel corso del quinquennio
antecedente la data di maturazione della anzianità massima
contributiva di 40 anni con un trattamento temporaneo pari al
cinquanta per cento di quello complessivamente goduto;
che, in
tal modo, si sarebbe determinata una disparità di trattamento tra i
dipendenti pubblici che godono del 50% della retribuzione complessiva
ai quali, come incentivo al prepensionamento, viene data la
possibilità di svolgere un lavoro autonomo (come la professione di
avvocato) senza alcuna limitazione, e coloro che, come il ricorrente,
hanno chiesto il collocamento in part time proprio al fine di
poter svolgere la professione e, successivamente, si sono visti negare
questo loro diritto dalla legge censurata;
che,
infine, la difesa della parte privata richiama la sentenza della V
sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo in data 19 luglio
2007 con la quale si è riaffermato il principio della certezza del
diritto come patrimonio comune della tradizione degli Stati
contraenti, principio che sopporta eccezioni solo se giustificate dal
sopraggiungere di rilevanti circostanze di ordine sostanziale;
che, in
prossimità dell'udienza, anche l'associazione degli avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale ha presentato una memoria con la
quale ha ribadito le proprie argomentazioni a sostegno della rilevanza
e della non manifesta infondatezza della questione;
che,
secondo l'associazione, la fattispecie in esame sarebbe analoga a
quella decisa con la sentenza n. 399 del 2008 con la quale la Corte,
nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 86, comma 1,
del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle
deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla
legge 14 febbraio 2003, n. 30), ha ritenuto irragionevole la norma in
relazione al sacrificio degli interessi che le parti avevano regolato
nel rispetto della disciplina precedente;
Considerato
che il Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre
2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della
professione di avvocato), nella parte in cui prevedono,
rispettivamente, che il divieto di esercizio della professione di
avvocato per i dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto (non
superiore al 50 per cento del tempo pieno) si applichi anche ai
dipendenti già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata
in vigore della medesima legge n. 339 del 2003 e che è possibile
esercitare l'opzione imposta fra pubblico impiego ed esercizio della
professione solo entro un breve periodo di tempo;
che, a
parere del rimettente, le norme censurate violerebbero gli articoli 3,
4, 35 e 41 della Costituzione, in particolare perché «data la
continuità dell'esperienza giuridica, il cambiamento e l'innovazione
devono trovare fondamento in nuove ragioni o in nuovi apprezzamenti
lato sensu politici, e non possono essere espressione
semplicemente di una capricciosa volubilità del legislatore: e ciò
tanto più quando, come nella specie, è in gioco un bene della vita,
come il lavoro, costituzionalmente protetto e anzi cardine dell'intero
sistema costituzionale, strettamente connesso col fondamentale
principio di autodeterminazione del singolo»;
che,
secondo il Tribunale di Napoli, sarebbe violato il legittimo
affidamento di coloro che avevano già effettuato la loro scelta sulla
base della normativa preesistente, espressiva di un disegno
legislativo organico e di lungo periodo, volto a favorire l'efficienza
amministrativa e la concorrenza nei servizi professionali e ritenuta
costituzionalmente legittima dalle sentenze n. 89 del 2001 e n. 171
del 1999 di questa Corte;
che la
questione è manifestamente inammissibile;
che il
medesimo rimettente ha già sollevato sotto diverso profilo, nel corso
dello stesso grado di giudizio, questione di costituzionalità degli
artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003;
che, con
la sentenza n. 390 del 2006, la predetta questione è stata dichiarata
manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza in quanto il
giudizio a quo aveva origine dal rifiuto dell'Amministrazione
di consentire la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno
in rapporto di lavoro a tempo parziale, rifiuto fondato sul disposto
dell'art. 58 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica), a norma del quale
l'Amministrazione ha il potere di negare il suo consenso alla domanda
del dipendente ove ciò «comporti un conflitto di interessi con la
specifica attività di servizio svolta dal dipendente» senza che,
pertanto, venga in rilievo il divieto di iscrizione all'albo degli
avvocati introdotto dalla legge n. 339 del 2003, ove il diniego
dell'Amministrazione sia ritenuto legittimo;
che, anche
a prescindere dalla circostanza che il rimettente non attribuisce
l'adeguato rilievo alla doppia tutela prevista dall'art. 2 della legge
in questione a favore dei soggetti che solo dopo un ampio termine
dall'entrata in vigore della nuova normativa sono tenuti ad effettuare
la scelta tra le due attività ritenute incompatibili (cioè fino a tre
anni per l'esercizio dell'opzione e fino ai cinque anni successivi per
l'eventuale riammissione in servizio), in ogni caso, secondo la
costante giurisprudenza costituzionale, «in presenza di una pronuncia
avente contenuto decisorio, come è quella che abbia accertato un
difetto di rilevanza non modificabile dal giudice a quo, non è
consentito al medesimo rimettente riproporre nel medesimo giudizio la
stessa questione, poiché ciò si concreterebbe nella impugnazione della
precedente decisione della Corte, inammissibile alla stregua
dell'ultimo comma dell'art. 137 della Costituzione» (ordinanze nn.
417 e 333 del 2008; n. 63 del 2004, n. 87 del 2000)»;
Visti
gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9,
comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale.
per questi
motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara
la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339
(Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione
di avvocato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di Napoli con l'ordinanza in
epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, l'11 marzo 2009.
F.to:
Francesco
AMIRANTE, Presidente
Paolo Maria
NAPOLITANO, Redattore
Giuseppe DI
PAOLA, Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 27 marzo 2009.
Il Direttore
della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
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