Non è responsabile il consulente per un'interpretazione erronea a causa di "un quadro normativo confuso"

 

Con sentenza n. 21700 del 20 ottobre 2011, la Cassazione ha affermato che il professionista non è responsabile della consulenza sbagliata, quando questa è stata frutto di un'interpretazione di un "confuso quadro normativo".

La Suprema Corte ha enunciato il principio di diritto secondo il quale, la limitazione della responsabilità professionale del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell'art. 2236 cod. civ. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà.

 

Corte di Cassazione Sez. Terza Civ. - Sent. del 20.10.2011, n. 21700

Svolgimento del processo

Con sentenza 6 agosto 2000 il Tribunale di Roma condannava il consulente del lavoro, P.E., a pagare la somma di lire 6.205.000 a titolo di risarcimento danni conseguenti alla attività di consulenza prestata al Notaio C.F.

Con decisione 18 novembre 2008 la Corte di appello di Roma riformava la sentenza di primo grado, rigettando la domanda di risarcimento proposta dal Notaio C., che condannava a pagare al P. il saldo dei compensi per la attività di consulenza del lavoro prestata.

Gli stessi giudici dichiaravano inammissibile la domanda di ripetizione delle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado proposto dal P. (in luogo che dalla Z. assicurazioni) nei confronti del C. La domanda di risarcimento danni proposta dal C. traeva origine dal fatto che il consulente P. aveva consigliato il notaio a versare i contributi previdenziali relativi ad alcuni giovani assunti con contratto di formazione e lavoro, in misura fissa, analogamente a quanto previsto per i giovani assunti con contratto di apprendistato.

Tale inquadramento, tuttavia, era stato ritenuto non corretto dall’Istituto previdenziale competente, sulla base di una interpretazione della Legge n. 407/1990 (che escludeva gli studi professionali dalla categoria delle “imprese” ammesse a tale agevolazioni).

Per questa ragione il C. aveva chiesto al consulente del lavoro P. il risarcimento dei danni conseguenti alla parziale omissione contributiva (per sanzioni e differenze di contributi).

I giudici di appello, riformando la decisione di primo grado, escludevano qualsiasi elemento di responsabilità a carico del P., la cui scelta di sottoporre le contribuzioni erogate ai giovani dello studio C. ai contributi stabiliti in misura fissa, come stabilito per gli apprendisti, non poteva essere considerata “né azzardata né abnorme, in quanto frutto di una legittima interpretazione del confuso quadro normativo”.

I giudici di appello accoglievano, conseguentemente, la domanda del P. intesa ad ottenere il pagamento delle differenze dovute per la attività di consulenza del lavoro ed elaborazione paghe.

Avverso tale decisione C. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da sei motivi.

Resistono con distinti controricorsi la Z. assicurazioni e il P.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di legge nonché vizi della motivazione. Il P. non aveva reso edotto il committente circa le possibili scelte e i presumibili esiti della opzione contributiva che egli aveva suggerito di indicare (opzione che l’INPS aveva ritenuto non corretta). I giudici di appello avrebbero dovuto considerare tale questione e stabilire se tale mancanza potesse costituire inadempimento professionale del P.

Con il secondo motivo, strettamente collegato al primo, si deduce violazione e falsa applicazione di norme di legge su punti essenziali della controversia, nonché motivazione assente, carente e contraddittoria. L’inadempimento professionale del P. comportava l’obbligo di risarcire i danni causati per avere il cliente agito come indicatogli dal professionista, nella convinzione che tale condotta fosse esente da censure e contraddizioni.

Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono inammissibili oltre che privi di fondamento.

La questione dell’inadempimento - da parte del P. - all’obbligo di informativa in ordine alle scelte operate in materia di contributi previdenziali non risulta essere stata tempestivamente sollevata nel giudizio di primo e secondo grado.

In ogni caso, occorre anche in questa sede ribadire che la limitazione della responsabilità professionale del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 c.c., si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà.

L’accertamento se la prestazione professionale in concreto eseguita implichi - o meno - la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, è rimesso al giudice di merito ed il relativo giudizio è incensurabile in sede di legittimità, sempre che sia sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o da errori di diritto (Cass. 14 agosto 1997 n. 7618, 18 maggio 1988 n. 3463).

Con motivazione logica, che sfugge a tutte le censure di vizi motivazionali, la Corte territoriale ha preso in esame la particolare situazione posta a base delle richieste di risarcimento avanzate dal Notaio C. ed ha concluso che la scelta di sottoporre le retribuzioni corrisposte ai giovani assunti con contratti di formazione e lavoro alla contribuzione ridotta, in misura fissa, così come previsto per i giovani assunti con contratto di tirocinio non era affatto azzardata ed era anzi in linea con la nozione di “impresa” assunta nel diritto comunitario che ricomprende in essa anche l’attività svolta dagli esercenti le professioni intellettuali.

Con ragionamento ineccepibile, i giudici di appello hanno sottolineato che la scelta operata dal P. non poteva dirsi abnorme, in quanto frutto di una interpretazione de tutto legittima del confuso quadro normativo.

Per questo motivo i giudici di appello hanno escluso la colpa grave del professionista, ossia l’errore inescusabile in ragione della sua grossolanità, o l’ignoranza incompatibile con la preparazione media esigibile dal professionista o l’imprudenza, sintomatica di superficialità e disinteresse per i beni primati che il cliente ha affidato alla cura del professionista. La decisione impugnata appare, in tutto, conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la responsabilità del professionista a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave (cfr. Cass. 4 dicembre 1990 n. 11612, 18 novembre 1996 n. 10068, 11 agosto 2005 n. 16846, 17 gennaio 2007 n. 974).

I giudici di appello hanno precisato che la interpretazione proposta dal P. era senza dubbio plausibile, come - per altro verso - risultava confermato da numerose decisioni di giudici di merito, e rispondeva senza dubbio all’interesse pratico del cliente a non versare contributi non dovuti e di prevedibile, difficile, ricuperabilità.

In particolare, la Corte territoriale ha tenuto a precisare che la opinione dell’INPS, espressa anche attraverso una lettera circolare agli assicurati - secondo la quale i liberi professionisti non erano inclusi nella categoria degli imprenditori destinatari della previsione di cui alla L. n. 291 del 1988, art. 5 comma, - non poteva affatto considerarsi vincolante, nonostante la “autorevolezza” della fonte.

La decisione della Corte di appello si basa su di una presunzione di compartecipazione del cliente alle scelte operate dal proprio consulente.

Come ha rilevato la compagnia di assicurazione Z., doveva ritenersi che il C. - anche in considerazione della sua preparazione giuridica - fosse stato adeguatamente informato dal P. in ordine alla, linea di condotta adottata in materia di versamento dei contributi. I modelli che prevedevano una contribuzione ridotta (in misura fissa così come previsto per gli apprendisti) erano stati personalmente sottoscritti dal notaio C., che aveva cosi - sia pure implicitamente - mostrato di condividere la interpretazione delle norme suggerita, dal proprio consulente del lavoro.

Sotto altro profilo, come opportunamente ha sottolineato la compagnia di assicurazione resistente, nel caso di specie non vi era neppure la prova della sussistenza di un danno concreto, verificatosi nel patrimonio del C., in conseguenza dell’operato del P.

Non poteva dirsi raggiunta, infatti, la prova della esistenza del nesso eziologico tra il maggiore esborso e la azione, od omissione, imputabile al P.

Il notaio C. si era autonomamente determinato - in conseguenza della richiesta dell’INPS - a richiedere la sanatoria, provvedendo a pagare le differenze contributive richieste con relative sanzioni, senza instaurare un contenzioso con l’istituto previdenziale, pagando eventualmente quanto richiesto, con riserva di ripetizione (come pure gli aveva suggerito lo stesso P.). Il rigetto dei primi due motivi, comporta, come conseguenza, l’assorbimento del terzo motivo, che presuppone l’accertamento di un inadempimento da parte del P.

Il quarto ed il quinto motivo, da esaminare congiuntamente, riguardano entrambi la regolamentazione delle spese del giudizio di primo e secondo grado.

Il P. aveva impugnato la condanna alle spese, ma non la entità della loro liquidazione.

Pertanto il giudice di appello avrebbe potuto, semmai, addossare le spese del giudizio di primo grado alla parte soccombente, ma non operarne una nuova determinazione in aumento (quarto motivo).

Tra l’altro, la decisione impugnata non aveva spiegato in alcun modo la ragione di tale nuova determinazione (quinto motivo).

Entrambe le censure sono prive di fondamento. Infatti, la riforma integrale della decisione di primo grado, ha comportato necessariamente la caducazione del capo della decisione relativo alla statuizione sulle spese del giudizio, conferendo al giudice di appello il potere-dovere di rinnovare il regolamento delle spese, alla stregua dell’esito finale della causa, disponendo anche in ordine alla loro quantificazione.

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte, per la quale ogni decisione sulle spese dell’intero giudizio spetta al giudice dell’impugnazione, che nella liquidazione di esse deve tener conto dell’esito complessivo del giudizio. (Cass. 17 gennaio 2007 n. 974).

Tra l’altro, la Corte territoriale aveva disposto una parziale compensazione delle spese del giudizio di primo e secondo grado, ponendo a carico del C. la rimanente metà.

Con il sesto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di legge su punti essenziali della controversia, difetto ed omissione di motivazione. Sottolinea il ricorrente che il C. non aveva formulato alcuna domanda nei confronti della compagnia di assicurazione e nonostante ciò era stato condannato a rifondere le spese del doppio grado del giudizio anche nei confronti della società. Anche questo ultimo motivo è infondato.

Si richiama sul punto la consolidata giurisprudenza di questa Corte in base alla quale, le spese sostenute dal terzo chiamato in giudizio a titolo di garanzia impropria sono legittimamente poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in garanzia. (Cass. 2 marzo 2007 n. 4958). Il rimborso delle spese processuali sostenute da chi sia stato chiamato in garanzia dal convenuto, legittimamente viene posto a carico dell’attore, ove questi risulti soccombente nei confronti del convenuto in ordine a quella pretesa che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia e sempre che non risulti soccombenza del chiamato ovvero del chiamante, a nulla rilevando la mancanza di un’istanza di condanna in tal senso (Cass. 28 agosto 2007 n. 18205).

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 4.200,00 (quattromiladuecento/00), di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge, in favore di ciascuno dei resistenti.
Depositata in Cancelleria il 20.10.2011

 

           
 

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