Legittimo il licenziamento del lavoratore che si impossessa di materiale aziendale

 

Con sentenza n. 22692 del 7 novembre 2011, la Cassazione ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa a seguito dell'impossessamento, da parte del dipendente, di materiale aziendale.

Il recesso diviene possibile non tanto per il danno patrimoniale arrecato al datore di lavoro ma per la ripercussione dell'evento sul rapporto fiduciario e sui dubbi di un corretto adempimento degli obblighi di fedeltà a carico del lavoratore.

 

Corte di Cassazione Sez. Lavoro - Sent. del 02.11.2011, n. 22692

Svolgimento del processo

 

Con sentenza dell’8/10 - 9/12/08 la Corte d’Appello di Genova rigettò l’impugnazione proposta da A.L. avverso la sentenza n. 503/07 del giudice del lavoro del Tribunale di La Spezia, con la quale era stata respinta la sua richiesta diretta a sentir accertare l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 26/5/04 dalla F. s.p.a per l’ingiustificato impossessamento di materiale aziendale, e nel confermare la gravata decisione condannò l’appellante alle spese del grado.

La Corte genovese spiegò che era risultato incontestato che I’A. era stato fermato all’uscita dello stabilimento con un pacco contenente materiale aziendale nuovo e che le giustificazioni offerte al riguardo dal lavoratore erano risultate contraddittorie; inoltre, la sanzione del licenziamento era apparsa proporzionata alla gravità della condotta tenuta dal ricorrente.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso I’A. il quale affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso la F. s.p.a. che deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. Col primo motivo I’A. denunzia la violazione dell’art. 360 c.p.c. n. 5 per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia.

In sintesi, i vizi motivazionali che il ricorrente sostiene esser presenti nella decisione impugnata, in relazione a fatti decisivi della controversia, sarebbero i seguenti: non risulta dagli atti, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che egli avrebbe confermato in sede di audizione disciplinare la linea difensiva iniziale, vale a dire quella di aver richiesto il materiale rinvenuto in suo possesso all’uscita dalla fabbrica esclusivamente per la raccolta di beni aziendali dismessi, allo scopo di consegnarli alle associazioni di volontariato; in realtà, tale tesi difensiva gli era stata inizialmente suggerita dalle organizzazioni aziendali in modo da farla coincidere con quella sostenuta dal collega di lavoro R. che quel materiale gli aveva procurato, anche se essa contrastava col suo reale convincimento, cioè che l’involucro in questione contenesse roba da mangiare; ciò sarebbe stato confermato dal fatto che in sede di audizione personale egli aveva riferito di aver ritirato un pacco nella convinzione che contenesse del cibo o delle cartucce per la caccia, dichiarazioni, queste, ribadite anche in sede di libero interrogatorio innanzi al giudice di primo grado; una tale ricostruzione dei fatti escludeva, pertanto, la sussistenza di una contraddittorietà delle sue dichiarazioni, come ravvisata, invece, dai giudici d’appello, inoltre, le deposizioni dei testi T. e D. avevano fornito un riscontro al suo reale convincimento sul fatto che il pacco contenesse del cibo; per effetto di tali deposizioni veniva meno la rilevanza data dal giudicante alle dichiarazioni del responsabile della sicurezza S. il quale aveva affermato che esso ricorrente non gli aveva riferito di aver ricevuto dal R. del materiale dismesso, né gli aveva confidato di esser convinto che si trattasse di materiale venatorio o da mangiare e che anzi, si era limitato ad opporgli un rifiuto a mostrare il contenuto del pacco che aveva con sé; la Corte territoriale aveva trascurato l’istanza istruttoria di audizione di altri dipendenti presenti al posto di guardia nel momento in cui il S. gli chiedeva di esibire il contenuto del suddetto pacco; la stessa Corte aveva trascurato il dato dell’inaffidabilità, accertata già in prime cure, del teste R., il quale aveva sostenuto di aver ricevuto da esso ricorrente la richiesta di raccolta di materiale dismesso a fini di beneficenza, ed aveva, invece, ritenuto che il teste fosse attendibile in quanto aveva reso anche delle dichiarazioni a sé sfavorevoli; appariva inadeguata la motivazione della Corte giudicante in ordine alla sottovalutazione di dati significativi, quali l’assenza di precedenti disciplinari a suo carico e la tenuità del valore della merce di cui era stato trovato in possesso.

Da parte sua, la difesa della F. eccepisce preliminarmente, in relazione a tale motivo, la violazione dell’art. 366-bis c.p.c., assumendo che lo stesso non contiene un momento di sintesi che consenta di valutarne l’ammissibilità. Orbene, va subito detto che il motivo è ammissibile, in quanto attraverso lo stesso sono indicati i fatti controversi in relazione ai quali si assume l’erroneità della motivazione; tuttavia, lo stesso è infondato per le seguenti ragioni: - Invero, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), “il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., è configurarle soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di mento adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse”.

Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dall’esito delle prove orali su punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano le censure di omessa, insufficiente o contraddittoria disamina mosse col presente motivo di doglianza.

Né va dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, cosi, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

D’altra parte, nella fattispecie la causa di erronea valutazione del materiale probatorio lamentata dal ricorrente non esaurisce le ipotesi di contraddizioni in cui il medesimo, a giudizio della Corte territoriale, era incorso, al punto da far emergere le incompatibilità di entrambe le linee difensive adottate. Al riguardo è sufficiente operare il richiamo al fatto, evidenziato dal giudice d’appello, che il ricorrente non aveva saputo giustificare, nel corso del libero interrogatorio, la ragione per la quale il R. gli aveva consegnato del materiale da smeriglio, se non esponendo che quest’ultimo era un soggetto un pò particolare; altra circostanza, egualmente posta in rilievo nella sentenza, è quella per la quale l’A. aveva dichiarato, nel momento in cui veniva fermato in possesso del pacco, di non conoscerne il contenuto, per poi affermare, una volta apertolo, di aver creduto che si trattasse di formaggio, un ulteriore rilievo di contraddizione rappresentato dal giudice d’appello è quello che fa leva sulla considerazione per la quale l’iniziale giustificazione basata sulla richiesta avanzata al collega R. di procurargli del materiale dismesso per devolverlo a fini di beneficenza non era stata esposta dal ricorrente nell’occasione del controllo subito, ma solo nella lettera scritta a seguito della formale contestazione disciplinare. Da tutto ciò si deduce, pertanto, che la Corte d’appello di Genova ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate in ordine ai riscontri eseguiti, immuni da vizi giuridici, l’ampio materiale istruttorio raccolto, cogliendo le diverse contraddizioni della linea difensiva del ricorrente, per cui le doglianze sopra riferite non scalfiscono la validità della “ratio decidendi” posta a base della sentenza impugnata.

2. Col secondo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione dell’art. 25 del ccnl dei metalmeccanici del 7/5/2003.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, non può essere esaminato il profilo di censura incentrato sulla presunta inosservanza della norma collettiva richiamata, non essendo stato prodotto all’atto del deposito del ricorso il testo integrale del relativo accordo, in chiara violazione di quanto prescritto a pena di improcedibilità dall’d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 - è soddisfatto solo con il deposito da parte del ricorrente dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, senza che possa essere considerata sufficiente la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito in cui sia stato già effettuato il deposito di detti atti.

Quanto alla necessità della contestualità del deposito del contratto collettivo e del ricorso si è già avuto modo di statuire (Cass. sez. 5, sentenza n. 303 del 12/1/2010) che “l’art. 369, quarto comma, cod. proc. civ. nel prescrivere che unitamente al ricorso per cassazione debbano essere depositati a pena d’improcedibilità “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”, non distingue tra i vari tipi di censura proposta: ne consegue che, anche in caso di denuncia di “error in procedendo”, gli atti processuali devono essere specificamente e nominativamente depositati unitamente al ricorso e nello stesso.”

In ogni caso non coglie nel segno la doglianza incentrata sul fatto che la Corte territoriale abbia trascurato di dar rilievo, ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione inflitta rispetto all’addebito contestato, ai dati niente affatto secondari della mancanza di precedenti disciplinari e della tenuità del valore del materiale oggetto del tentativo di impossessamento.

Invero, non può ritenersi che le valutazioni operate in merito dal giudice d’appello non siano sorrette da un’adeguata motivazione atta a farne apprezzare la congruità logica e la correttezza giuridica, tanto più che si è in presenza di un accertamento sufficientemente specifico sia degli elementi strettamente fattuali della fattispecie, sia dei criteri di carattere generale ispiratori del giudizio di tipo valutativo.

Infatti, premesso che nel licenziamento disciplinare la gravità del fatto va valutata, al fine di verificare il rispetto della regola codicistica della proporzionalità della sanzione, sulla base di una serie di elementi che non possono esaurirsi nelle dirette conseguenze meramente economiche prodotte al datore di lavoro dalla condotta contestata, ma possono riguardare sia il grado di responsabilità collegato alle mansioni affidate al lavoratore, sia le modalità della condotta, specie se rivelatrici di una particolare propensione alla trasgressione, sia l’incidenza dei fatti sulla permanenza del vincolo fiduciario che caratterizza lo specifico rapporto di lavoro, nel caso di specie la Corte territoriale ha correttamente evidenziato, con giudizio congruo, che è legittimo attendersi che la società non possa più fare affidamento su un dipendente che ha trafugato beni aziendali per esigenze personali, attuando un comportamento doloso ed in concorso con un collega, col ragionevole timore del reiterarsi di una tale condotta.

A tal riguardo si è già chiarito (Cass. sez. lav. N. 14507 del 29/9/2003) che “nel caso di licenziamento per giusta causa in conseguenza dell’abusivo impossessamento di beni aziendali da parte del dipendente, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso viene in considerazione non l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale ma la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti. (In base al suddetto principio la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa motivato dalla appropriazione da parte del dipendente, autista di una azienda pubblica di trasporti, di 25 litri di gasolio sottratti all’automezzo a lui affidato, in quanto , anche se l’azione in sé non aveva comportato conseguenze economiche di rilievo per la società datrice di lavoro. incideva in modo diretto ed immediato sul vincolo fiduciario caratterizzante lo specifico rapporto di lavoro, trattandosi di fatti commessi dal lavoratore approfittando della mansione assegnata e con modalità che denotavano premeditazione).” (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 16260 del 19/8/2004)

Ma anche per quel che concerne l’eventuale assenza di precedenti disciplinari si è statuito in passato (Cass. sez. lav. n. 4025 del 10/7/1984) che “la valutazione del fatto contestato al lavoratore come giusta causa di licenziamento, al fine di stabilirne la rispondenza all’archetipo di cui all’art. 2119 cod. civ., postula l’accertamento diretto, in relazione alla natura e alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che in esso ha avuto il lavoratore e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava, a verificare se il comportamento era oggettivamente e soggettivamente tale da ledere gravemente, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro doveva poter riporre nel proprio dipendente in quel particolare rapporto, non essendo, in assenza di questo più ampio contesto di apprezzamento e valutazioni, possibile attribuire autonomo rilievo esclusivo della suddetta rispondenza alle sole circostanze della carenza di precedenti disciplinari e della tenuità del danno arrecato al datore di lavoro ovvero del difetto di qualsiasi effettivo pregiudizio per l’azienda.”

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per onorario e di €. 50,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.
Depositata in Cancelleria il 02.11.2011

 

stampa la notizia       chiudi                                

- www.dplmodena.it